Brulotti

Propaganda

«Quando tutti pensano
alla stessa maniera,
nessuno pensa molto»

Walter Lippmann
 
Per cominciare, sgombriamo subito il campo da un equivoco che puntualmente si viene a creare. Cosa si intende per propaganda? Secondo una definizione risalente ai primi anni 50, più volte ripresa in virtù della sua sostanziale precisione, la propaganda è «una tecnica di pressione sociale che mira alla formazione di gruppi psicologici o sociali a struttura unificata, attraverso l’omogeneità degli stati affettivi e mentali degli individui presi in considerazione».
Occorre perciò tenere bene in mente che la propaganda costituisce una tecnica di omologazione, se si vuole comprendere quanto sia errata e fuorviante la consolidata abitudine di considerarla una sorta di diffusione organizzata di idee. Se si limitasse a ciò, ad essere criticabile sarebbe solo la forma che essa può talvolta assumere, ma di per sé sarebbe ritenuta comunque giustificata poiché corrispondente ad un bisogno reale ineludibile. Nessuno può infatti negare che ogni pensiero degno di questo nome tende a trovare una propria espressione pratica, e chiunque desideri realizzare un progetto che vada oltre se stesso non può esimersi dall’affrontare il problema di come comunicare al maggior numero di persone ciò che reputa vero, giusto, utile.
Ma non è di questo che qui si tratta, e pazienza se nel 1793, in piena Rivoluzione francese, venne formata in Alsazia una associazione che prese ufficialmente il nome di Propaganda, il cui compito era quello di diffondere le idee rivoluzionarie nelle città e nei villaggi. Precedente storico che potrà forse spiegare l’origine dell’equivoco, ma non per questo legittimarlo. Due significati radicalmente contrapposti non possono convivere in uno stesso termine senza provocare un certo confusionismo che, invece di alimentare, ci piacerebbe per quanto possibile provare a dipanare.
Ebbene, è facile capire come la propaganda non abbia nulla a che vedere con l’illuminante viaggio di un’idea, non essendo interessata né alla riflessione, né al dibattito e tanto meno alla consapevolezza. Essa è sempre stata un’intenzionale manipolazione di elementi psicologici fondamentali dell’essere umano. Non si rivolge all’intelligenza, ma agli istinti e agli impulsi, spesso quelli più reconditi. Stimola tratti primordiali, quali la suggestione e l’imitazione. Non cerca di persuadere attraverso argomentazioni, procede martellando comandi e formule. Il fine di chi la mette in campo è quello di provocare un atteggiamento, una decisione, senza farli passare attraverso il vaglio del pensiero. Preso atto che l’essere umano il più delle volte ha sentimenti potenti come l’amore e l’odio non per ragioni attentamente ponderate, ma in una sorta di sussulto, la propaganda cerca di intervenire proprio su questa forza segreta in grado di suscitare grandi sentimenti. Ciò significa che per la propaganda è fondamentale escludere il più possibile quanto fa parte della coscienza, della riflessione, della scelta. Se nella propaganda si discute, non è certo per la validità degli argomenti, per approfondirne il significato, o con l’auspicio che un ragionamento possa sortire qualche benefico effetto: la parola nella propaganda ha un carattere intellettuale solo in apparenza, di fatto persegue un obiettivo completamente diverso che è quello di ottenere l’adesione di un inconscio generalmente molto distante dal contenuto dell’argomento trattato.
 
La lontana origine etimologica di questa tecnica di grassazione psicologica è di per sé significativa in tal senso. Il primo apostolato cristiano costituisce già il modello compiuto della campagna propagandistica su scala internazionale. Fu infatti proprio la Chiesa cattolica ad istituire per prima la propaganda, anticipando di secoli gli Stati, i partiti, i sindacati, le imprese. Il 22 giugno 1622 papa Gregorio XV rese pubblica la bolla Inscrutabili divinæ con cui annunciava la fondazione della Sacra Congregazione De propaganda fide, il cui scopo era l’organizzazione dell’attività di proselitismo ecclesiastico. Mai atto di nascita fu più rivelatore, sui mezzi come sui fini perseguiti. La propaganda è sorta per facilitare l’espansione planetaria di una forma di colonialismo. Ed è questione di fede. Diffonde un sistema di credenze composto da dogmi, ovvero da convinzioni da non mettere giammai in discussione, allo scopo di conquistare il dominio sul corpo e sulla mente. Essa mira ad influenzare (quindi a controllare) il comportamento globale degli individui e delle collettività, facendo leva sulle angosce e sulle speranze che si agitano nel loro subconscio.
Si tratta di un progetto di potere che ha riscosso un tale successo da suscitare presto interessi e rivalità anche al di fuori dell’ambito sacrale. Dopo i sacerdoti, è stata la volta prima dei politici e poi dei mercanti di farsi propagandisti. Dopo gli infedeli, è toccato prima ai governati e poi ai clienti diventarne preda. Ed è proprio in campo economico che la propaganda, sotto il nome di pubblicità, ha fatto passi da gigante al punto da diventare a sua volta modello e fonte di ispirazione per molti uomini di Stato. Ciò non può certo sorprendere. In effetti, una tecnica capace di spingere le masse a compiere atti totalmente irriflessivi può essere utilizzata per qualsiasi fine: pregare un Dio, votare un politico, acquistare una merce...
Da questo punto di vista, anche la nascita della propaganda nella sua forma più moderna è assai istruttiva. Essa viene fatta risalire al primo massacro mondiale, allorquando il governo degli Stati Uniti si trovò ad affrontare il problema di come mobilitare l’ardore dei soldati e suscitare l’adesione delle masse a favore di una guerra fino a quel momento assai poco popolare (perché mai attraversare un oceano per andare a morire in una trincea straniera?). Il 13 aprile 1917, sette giorni dopo aver annunciato l’ingresso del paese nel conflitto mondiale, il presidente Woodrow Wilson — che alcuni mesi prima si era fatto rieleggere vantandosi di aver «tenuto gli USA fuori dalla guerra» — istituì il Comitato sulla Pubblica Informazione. Compito di questa agenzia governativa era influenzare l’opinione pubblica con ogni mezzo possibile, ingenerando il massimo entusiasmo verso lo sforzo bellico. La sua guida venne assegnata al giornalista George Creel, il quale assunse uno stuolo di collaboratori fra cui coloro che sarebbero stati in seguito ricordati come i padri fondatori delle «pubbliche relazioni». Per intenderci, pubblicitari del calibro di Ivy Lee ed Edward Bernays.
Il primo è stato l’inventore del comunicato stampa e nel 1914 ha orchestrato la campagna stampa per difendere il magnate Rockfeller dall’accusa di essere il mandante del massacro di Ludlow; il secondo era nipote di Sigmund Freud e si è distinto come abile agente stampa di artisti internazionali, applicando alla psicologia di massa le scoperte psicanalitiche dello zio. Benché critico dell’operato di Creel, un altro consigliere del presidente Wilson fu Walter Lippmann, il celebre giornalista che forse per primo sostenne la necessità delle tecniche di condizionamento dell’opinione pubblica. Ed è proprio in questa fucina che, a titolo di esempio, venne coniato un ritornello che ancora oggi risuona inesorabilmente nelle orecchie di tutti, ogni qual volta l’esercito degli Stati Uniti si appresta a bombardare: lo zio Sam entra in guerra non per proprio tornaconto, ma per «portare la democrazia» laddove è assente.
 
Vale la pena riassumere. La propaganda politica moderna è nata in un paese democratico al fine di giustificare un eccidio mondiale; fra i suoi ostetrici figuravano non pochi agenti pubblicitari; il suo successo è dipeso dalla quantità e dalla varietà dei mezzi tecnici impiegati. Ecco perché ritenere che essa sia una prerogativa dei soli regimi dittatoriali, impossibile da rintracciare nelle società civili dove è presente una «libertà di scelta» fra diverse informazioni contrastanti, denota la stessa ingenuità di chi si ritiene libero perché può decidere se acquistare una lattina di Coca Cola o una di Pepsi Cola.
I legami simbiotici che intercorrono fra propaganda politica e pubblicità commerciale, nonché fra dittatura e democrazia, si manifestano talvolta in maniera esplicita quasi imbarazzante.
Nella sua autobiografia, Creel riesce a descrivere la campagna a favore di una guerra che causò una ventina di milioni di morti con queste parole: «In tutte le cose, dalla prima all’ultima, senza sosta o cambiamento, è stata una chiara proposta pubblicitaria, una vasta impresa della capacità di vendere, la più grande avventura del mondo nella pubblicità».
Sull’altro versante, il nazista Goebbels non nascose di considerare come suo maestro di propaganda l’agente stampa di Broadway che aveva reso celebre negli Stati Uniti il tenore Enrico Caruso, ovvero quell’Edward Bernays che dall’esperienza con il C.P.I. aveva tratto la conclusione che se le tecniche di persuasione di massa funzionavano in tempo di guerra, avrebbero potuto funzionare egregiamente anche in tempo di pace. Consapevole del fatto che «noi siamo governati, le nostre menti vengono plasmate, i nostri gusti vengono formati, le nostre idee sono quasi totalmente influenzate da uomini di cui non abbiamo mai nemmeno sentito parlare», Bernays fece carriera come consulente sia di grandi multinazionali che di politici, fra cui alcuni inquilini della Casa Bianca.
Nel 1925 Walter Lippmann pubblicò una specie di seguito della sua opera più famosa (L’opinione pubblica), a cui diede il titolo Il pubblico fantasma. In questo libro demolisce l’illusione democratica secondo cui l’esistenza di un «cittadino sovrano e onnicompetente», in grado di occuparsi della «cosa pubblica», sarebbe possibile non solo nelle piccole città greche dell’antichità, ma anche nella complessa «Grande Società» contemporanea. Di fatto il cittadino moderno, preso fra lavoro e divertimento, è null’altro che uno «spettatore sordo seduto nell’ultima fila», motivo per cui è insensato ritenere «che la composizione di ignoranze individuali in masse di persone possa produrre una forza direttrice continua negli affari pubblici». Il cosiddetto pubblico può soltanto allinearsi ad un partito politico. Seguire e moderarsi sono le due grandi responsabilità politiche del cittadino, il quale deve astenersi dall’interferire nel dibattito con la sua ignoranza e le sue osservazioni banali. Lippmann non ha dubbi in proposito: «il pubblico deve essere messo al suo posto, in modo che... ognuno di noi possa vivere libero dallo scalpiccio e dai muggiti di una mandria disorientata». L’esercizio della democrazia deve quindi essere affidato a una classe specializzata, ad una élite politica.
Proprio in quello stesso anno, il 1925, dall’altra parte dell’oceano Atlantico vedeva la luce un’opera destinata a diventare tristemente celebre. L’autore era un ex-imbianchino austriaco, da pochi anni diventato segretario del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori. Nel suo Mein Kampf, Adolf Hitler spiegava che «Non è lo scopo della Democrazia odierna quello di formare un’assemblea di uomini saggi, ma piuttosto di prenderli da una folla di nullità servili che possano essere facilmente portate verso determinate direzioni, specialmente se l’intelligenza di ognuna di esse è limitata... la forza di un partito politico non consiste nella grande e autonoma intellettualità dei singoli membri, ma in una disciplinata obbedienza prestata dai membri alla direzione intellettuale». Il futuro dittatore prescriveva con brutale schiettezza ciò che il giornalista liberale constatava con fredda indifferenza.
 
La propaganda non è dunque caratteristica di determinati regimi politici, ma di qualsiasi forma di potere che disponga di strumenti tecnici in grado di influenzare e controllare gli individui, omologandoli in una società massificata. È l’arma principale di chi vorrebbe persuaderci che la «massa» sia una realtà sociale omogenea, unita in una comunione naturale, laddove non è altro che l’aberrante risultato della propaganda che l’ha raccolta, fabbricata e neutralizzata, distruggendo in ciascuno ogni barlume di coscienza individuale. Che miri ad ottenere devoti fedeli, obbedienti cittadini o assidui clienti, scopo della propaganda rimane infatti la diffusione del conformismo. Poiché la sua pressione tende ad orientare in una determinata direzione il comportamento degli individui, uno dei suoi compiti primari consiste nel ridurre al massimo il margine di iniziativa autonoma o la tendenza all’isolamento degli individui presi in considerazione. Se suggerisce un modello di comportamento ben delineato, se insiste in maniera ossessiva nella sua presentazione, è per tracciare una linea di condotta che non incoraggi alcuna fantasia individuale, al fine di scongiurare ogni possibilità di evasione da schemi collettivi prestabiliti. Da qui la necessità di neutralizzare una possibile solitudine in cui coltivare uno spirito critico in grado di indebolire l’atteggiamento imposto. Il metodo più sicuro diventa allora quello di sollecitare a tuffarsi periodicamente nell’atmosfera di gruppo, poiché appena l’individuo entra a far parte di un gruppo solidamente strutturato non può fare a meno di uniformarsi agli ideali generali e di accettare determinati schemi di comportamento. Anche gli spiriti più critici e ribelli perdono mordente, quando si trovano immersi in un’inebriante atmosfera collettiva.
Ma, come si è detto, questa massificazione non sarebbe possibile se non esistessero strumenti tecnici in grado di imporla.
A tale proposito rimangono indimenticabili le parole del ministro nazista per gli armamenti e la produzione bellica, Albert Speer, davanti ai giurati di Norimberga: « Con l’ausilio di mezzi tecnici, come la radio e l’altoparlante, la volontà di un solo uomo ha potuto dominare ottanta milioni di uomini... Il sistema autoritario, nell’era della tecnica, può permettersi di rinunciare ai quadri direttivi inferiori: li sostituisce, meccanizzandoli, con i mezzi moderni di comunicazione». E infatti, a partire dagli anni 30, in molte abitazioni dei paesi occidentali dello scorso secolo compare un soprammobile in più: l’apparecchio radiofonico. Non è molto decorativo, ma cambia tutto. Ogni giorno, al desco serale, prende posto un convitato i cui inarrestabili monologhi vengono ascoltati dai presenti con la massima attenzione. Annuncia fatti e pronuncia giudizi, senza possibilità di dibattito o discussione. Seguiranno anni terribili di cui il minimo che si possa dire è che hanno propagato su tutto il pianeta e determinato in tutte le popolazioni una varietà di meccanismi psicologici di attesa, di ricettività, di sottomissione, che fanno della propaganda un detergente in grado di rimuovere fin la minima traccia di pensiero autonomo e critico, sostituendo la ragione con l’emotività e oscurando la linea di demarcazione tra il vero e il falso.
Con lo sviluppo di nuove tecnologie, le tattiche utilizzate dagli ingegneri di anime (contraffazione, censura, esagerazione, minimizzazione, distrazione, ridondanza...) si sono moltiplicate come i loro mezzi. Fino agli anni 50 gli strumenti tecnici della propaganda (giornali e radio) erano costruiti per lo più attorno alla sola parola. Quanto alla propaganda mediante il cinema, non poteva che essere relativamente debole. Ciò non solo perché all’inizio non si andava molto oltre la proiezione di cerimonie e sfilate militari, ma anche e soprattutto perché il cinema non permette una costante ripetizione, tipico martellamento della propaganda. L’avvento della televisione ha cambiato completamente lo scenario. Il nuovo elettrodomestico è diventato un’arma fondamentale per dominare l’essere umano. Come la radio, lo raggiunge quotidianamente in casa, nel suo ambiente, nella sua vita privata, senza chiedergli nessuna decisione o sforzo. Ma, a differenza della radio, lo ghermisce del tutto, non lasciandogli alcuna possibilità di muoversi o di pensare ad altro, inchiodandolo davanti allo schermo. Ciò perché la televisione possiede la potenza-shock dell’immagine, che è infinitamente superiore rispetto a quella del suono della parola.
Lippmann lo aveva già intuito fin dall’inizio degli anni 20, quando riconosceva senza mezzi termini che l’opinione pubblica è composta da immagini, non da idee: «Le immagini che sono nella mente degli esseri umani, le immagini di se stessi, degli altri, delle loro esigenze, dei loro intenti e delle loro relazioni, rappresentano le loro opinioni pubbliche. Queste immagini, quando vengono gestite da gruppi di persone o da individui che agiscono in nome di gruppi, costituiscono l’Opinione Pubblica con le iniziali maiuscole».
Per parte sua, Hitler annotava quante «maggiori prospettive possiede l’immagine in tutte le sue forme... Qui, c’è ancor meno bisogno di lavorare con l’intelletto: basta guardare, tutt’al più leggere brevi testi: perciò molti sono più disposti ad accogliere in sé un’esposizione fatta con l’immagine che a leggere un lungo scritto».
Ecco spiegata in breve la sconfinata superiorità propagandistica della televisione rispetto alla radio. La seconda è fatta unicamente di parole che evocano immagini da elaborare singolarmente, la prima offre immagini già confezionate per un consumo collettivo. La parola va capita e ponderata con la logica, l’immagine no, basta percepirla e memorizzarla. Ciò rende più facile cogliere quanto sia vertiginoso il cambiamento avvenuto all’inizio del terzo millennio con l’introduzione delle tecnologie digitali. Già da decenni l’effetto ipnotico della propaganda non si rileva tanto nelle parole d’ordine dei partiti, quanto nei film delle serie televisive, negli spot pubblicitari, nelle colonne sonore dei videoclip, nelle canzonette dei centri commerciali. È in questo modo che è stata diffusa capillarmente una sensibilità comune: attraverso immagini che rimbalzano uguali in tutto il mondo è stato promosso un tipo di vita basato sul consumo di merci e sull’obbedienza all’autorità. E in progressione, nel giro di pochi anni, da un lato la televisione stessa si è fatta interattiva — permettendo in qualche modo agli spettatori di prendervi parte, superando così il proprio ruolo di utenti passivi — dall’altro è stata affiancata da nuovi dispositivi tecnici.
Ci riferiamo ovviamente alla comparsa degli smartphone, nel 2007, dispositivi in grado di connettere 24 ore su 24 al fantasmagorico mondo virtuale esseri umani isolati, sradicati, persi nella massa, dai legami sociali indeboliti, particolarmente esposti alla sofferenza psicologica, vulnerabili all’ideologia, manipolabili dall’adulazione e dalla seduzione. Esseri umani che si prestano alla propaganda, la richiedono, la esigono, perché in essa trovano una certa soddisfazione. Nella società tecnica essa costituisce infatti un sostegno necessario per affrontare condizioni di vita difficili, il peso del lavoro e l’ansia per il futuro. E quale migliore e più efficiente sostegno di quello fornito da questi piccoli specchi neri sempre sotto mano, capaci di funzionare al tempo stesso come telefoni, macchine fotografiche, videocamere, registratori, calcolatrici, computer, televisori...? Nel giro di poco tempo sono diventati indispensabili sia per svolgere il lavoro che per procurare lo svago, ed è ad essi che ci si rivolge per risolvere qualsiasi problema o per superare la noia. Non si limitano ad accompagnare la vita, la organizzano minuziosamente attraverso algoritmi sempre più sofisticati calcolati dalle grandi compagnie. Fanno da guida nelle faccende quotidiane, al punto che senza le loro applicazioni si prova un senso di smarrimento, di impotenza… di solitudine persino, considerato che sollecitano di continuo l’attenzione umana con i loro esaspera(n)ti richiami sonori.
Le conseguenze di tutto ciò sono devastanti. Gli effetti provocati dall’uso degli smartphone sono gli stessi riscontrati nei più accaniti telespettatori (difficoltà di concentrazione, perdita della memoria, riduzione del linguaggio, regressione delle capacità intellettive), accresciuti però in maniera esponenziale. Questo perché la televisione resta pur sempre un ingombrante apparecchio domestico, che è possibile guardare solo per una parte più o meno lunga della giornata. Lo smartphone no, è diventato letteralmente un’appendice del corpo umano. E nell’apprendere che il risultato della sua consultazione ossessivo-compulsiva è stato battezzato «demenza digitale», non possiamo fare a meno di ricordare ancora una volta le parole di Hitler: «tutta la propaganda deve essere popolare e deve adattare il proprio livello intellettuale alla capacità ricettiva della persona più limitata fra coloro a cui desidera rivolgersi. Quindi il suo livello intellettuale deve essere tanto più basso quanto più numerosa è la massa di persone da raggiungere».
 
I mezzi tecnici moderni di cui dispone oggi la propaganda consentono di raggiungere, avviluppare e indirizzare l’essere umano in ogni istante della giornata, dall’alba al tramonto. Ciò fa sì che il loro compito immediato sia andato ridefinendosi, passando dalla susseguente pressione esteriore (allineamento forzato di chi esce dai ranghi sociali) alla preventiva formattazione interiore (produzione seriale di bisogni e desideri in un essere umano ridotto a meccanismo), realizzando così l’auspicio di Goebbels di «ancorare le cose dello Stato alle larghe masse in modo che l’intera nazione si senta parte di esse».
Oggigiorno l’introduzione del digitale sta portando a termine una vera e propria mutazione antropologica, in grado di far introiettare all’essere umano, attimo per attimo, i modelli di esistenza individuale e collettiva considerati migliori — perché più efficienti, redditizi, «performanti». E ciò avviene in maniera quasi impercettibile, tanto da dare la sensazione di un nuovo ordine naturale delle cose. Ma lo scopo essenziale della propaganda resta il medesimo di sempre: il dominio assoluto della ragione di Stato e del prezzo di Mercato, ottenuto mediante la neutralizzazione di ogni altro possibile.
 
Abbiamo qui raccolto alcuni interventi sulla propaganda, di alcuni suoi critici ma anche di alcuni suoi apologeti. Chissà che la lettura di queste pagine, oltre a costituire un buon esercizio per liberare le vie psichiche, non contribuisca a meglio avvistare e scacciare gli sparvieri mentali che da tempo immemore oscurano il cielo. Cosa tanto più necessaria ed urgente oggi, allorquando ci troviamo nel secondo anno di guerra pandemica, bombardati e soffocati da una campagna planetaria di terrorismo mediatico-virale mai vista, in grado di prostrare un’umanità totalmente in balìa di un’emotività indotta. Vero e proprio stupro delle masse, per riprendere la nota espressione di Ciacotin, il quale aveva ben colto che «la prima legge della propaganda... è la legge della conservazione dell’individuo. E per renderla efficace nel comportamento di quest’ultimo, il capo deve usare lo stratagemma seguente: deve suggerire la paura e fare intravvedere lo scioglimento della situazione pericolosa, la possibilità di raggiungere la sicurezza per mezzo delle azioni che egli suggerisce».
La facilità con cui scienziati e politici sono riusciti ad incrementare in modo inaudito la servitù volontaria, a paralizzare muscoli e cervelli presentando un virus influenzale (più o meno ostico, non è questo il punto) come l’undicesima piaga biblica, a spacciare la rinuncia volontaria ad ogni libertà per una forma di civile rispetto nei confronti degli altri, e dulcis in fundo a scatenare una corsa sfrenata all’irrimediabile inoculazione di intrugli vaccinali sperimentali dagli esiti sconosciuti persino a chi li ha prodotti — non sarebbe mai stata possibile senza una preventiva e consolidata abitudine all’assenza di ogni minima riflessione critica.
Non ci libereremo mai della propaganda finché non cesseremo di credere e non (ri)cominceremo a pensare.
 
PROPAGANDA
detergente del pensiero critico
pp. 244, 12.50 euro
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