Contropelo

Propaganda: Conoscenza o Divertimento?

Bernard Charbonneau
 
Informarsi o essere informati?
Che cos’è l’informazione nel tempo dell’informatica? In un’altra epoca si sarebbe piuttosto parlato di conoscenza, al singolare o al plurale. Il termine informazione, relativamente recente, degradato dalla cibernetica, finisce col dire tutto — ovvero niente. Si dice che le cellule della ghianda siano «informate» di dover produrre una quercia, proprio come la propaganda prodotta dal comunista o dal nazista. Ma noi, avendo per partito preso l’uomo, ci atterremo qui all’informazione umana, che si presume trasmetta conoscenze di ogni tipo, sensate e non menzognere.
Ciascun uomo è un luogo solare che riceve ogni sorta di richiamo dall’universo. Ma questa informazione diretta, viva, attiva e relativa, è limitata in quantità e in diversità. Quindi per estendere la mia informazione, cioè la mia conoscenza, devo accettare d’essere informato dalla mia società: la sua educazione, i suoi libri, i suoi giornali, oggi suoi «media». Spetta a me provare ciò che essa apporta al fuoco della mia critica anziché farmi imbottire beotamente di «sapere».  In questo caso, mi informo e sono nel contempo informato, attivamente e passivamente. Posso così allargare il mio orizzonte ben oltre il mio spazio-tempo individuale, apparentemente all’infinito.
Siamo convinti d’essere sempre più e sempre meglio informati. Ma non c’è inevitabilmente una contraddizione tra informarsi ed essere informati, tra la qualità dell’informazione personale e attiva e la quantità di una informazione sociale indefinitamente accumulata attraverso lo sviluppo dei mass media e quello delle scienze? La sovrabbondanza d’informazione non la rende vieppiù soltanto ricevuta e inverificabile, e non finisce con l’atrofizzare la capacità di informarsi, ovvero di conoscere? In tal caso l’odierna proliferazione dell’informazione finisce col cambiare del tutto la propria funzione. Invece di accrescere la conoscenza della nostra vita personale e sociale, ci aiuta ad evadere da essa. Giacché la prima informazione che riceve ogni uomo con un minimo di coscienza di sé — io vivo — gli comunica che le sue forze e il suo tempo sono misurati, che l’universo è molto più vasto dello spirito che lo vuole conoscere, e che la morte arriva per chi vuole vivere. Come non dimenticarlo, divertendosi ed informandosi di altro? L’informazione, se ha qualche rapporto con la conoscenza, contrariamente all’idea ricevuta, non va da sé, è un atto di libertà realizzata all’opposto di ogni facilità, delle angosce e dei pregiudizi utili a difenderci. E invece ogni mattina l’informazione mediatica ci aiuta ad iniziare la giornata con l’annuncio di un sisma in Paraguay, mentre imburriamo le nostre tartine e buttiamo un occhio su un’immagine ben presto cancellata. Siamo in attesa di un avvenimento sensazionale che ci distragga dal grigiore quotidiano. Allora, invece di informarci, l’informazione occlude nei crani il minimo pertugio da cui possa passare un po’ di silenzio e di aria. Invece di accrescere la nostra conoscenza della condizione umana, non ha forse la funzione di disinformarci, aiutandoci a dimenticare il nostro personale destino, facendoci diventare atomi indifferenziati di un qualche Leviatano sociale? È questo che affronteremo con l’odierna informazione mediatica.
 
L’informazione mediatica
Sebbene le capacità d’informazione e di comunicazione diretta di un uomo non si siano molto evolute, i nostri mezzi tecnici sono radicalmente cambiati, come tutto il resto. Ad un iniziale periodo «di bocca in orecchio» (oggi marginalizzato dalla scienza e dai media al rango di «voci») è seguito quello della «galassia Gutenberg», sempre più minacciata dai fonemi e dai morfemi di radio e televisione del «villaggio elettronico».
I mezzi pesano comunque sui fini. Finora, più vengono perfezionati più sono costosi, concentrati nelle mani dello Stato, delle multinazionali o di una casta di specialisti, ingranaggi di un progresso tecnico che dà all’immagine e al suono tutta la forza del reale per costruire ciò che per convenzione si definisce Opinione.
Come liberare l’informazione e l’opinione dallo Stato, dalla Finanza e dalla tecnocrazia dei media? In ogni istante mediatizzato, l’informazione minaccia di degenerare in pubblicità-propaganda. Perché la pubblicità altro non è che una propaganda economica, così come la propaganda è una pubblicità politica. Ed i procedimenti, le immagini, gli slogan che l’una e l’altra utilizzano per sedurre le masse sono i medesimi: il bel ragazzo dagli occhi azzurri può servire per vendere altrettanto bene un nazismo, un comunismo o una marca di sigarette.
In genere, quando si parla di «mass media», si riduce la questione che pongono alla libertà d’opinione cercando di sganciarli dal potere del governo. Ma in tal caso, non significa consegnarli ai capitalisti che li finanziano, in particolare ricorrendo ad una pubblicità pagata in funzione delle vendite e degli indici di ascolto? E se l’informazione mediatica si sgancia dal Capitale, non la si consegna forse allo Stato che sovvenziona? Come uscire dal dilemma? Dando la libertà ai giornalisti, si risponderà. Ma allora, salvando l’informazione dal potere dello Stato e del Denaro, non la si consegna ad un terzo potere che pure s’impone all’Opinione? Giacché la complessità dell’informazione mediatica è il lavoro di una casta di giornalisti che, ancor più delle pressioni del governo o della finanza, subiscono quelle del loro mestiere. Al limite, il mezzo tecnico — la grande stampa, la radio, la televisione — diventa il fine. «The medium is the message», come ha dichiarato un profeta canadese.
Il giornalista, un tempo artigiano e giocoliere poco considerato, si formava empiricamente sul campo. Adesso lo è metodicamente, come gli altri tecnici, in istituti specializzati che gli forniscono un diploma. Là riceve una cultura generale che gli consentirà di parlare di tutto. Là impara a servirsi degli strumenti della sua professione e viene formato nella sua ottica. La sua ragione d’essere è la rapidità, la comunicazione più pronta possibile di un’informazione oggettiva — impresa contraddittoria, dato che l’oggettività richiede un periodo di distacco. Egli deve anche saper selezionare i fatti in funzione della loro importanza. Secondo quali criteri? L’attualità sensazionale: tutto il giornalismo risiede in queste due parole. L’attualità, oggi caduta dal cielo come un fulmine, in diretta se è possibile nel momento stesso in cui accade — subito cancellata da un’altra. Sensazionale: che colpisca i sensi con grossi titoli e con immagini; da qui il richiamo al sesso, al sangue e alla morte. Questo con l’ausilio di mezzi tecnici che diano all’immagine, alla differenza di stampa, l’effetto choc della presenza reale. Il criterio che permette di distinguere l’essenziale dall’accessorio è lo «scoop» che calibra strettamente le informazioni: catastrofi, guerre, personalità selezionate in base al loro interesse mediatico, eccetera.
Il Terzo Potere controlla così l’azione alla fonte: l’informazione e la sua comunicazione. Potere automatico, che non ha bisogno di essere registrato dalla legge, né dalla coscienza di coloro che lo subiscono o lo esercitano. Il giornalista di buona volontà non ha alcuna possibilità, soprattutto non ha il tempo, di liberarsi dalla pressione del suo mestiere. Così la censura del Denaro o dello Stato è seconda rapportata a quella dei media; come il pubblico perde l’abitudine di informarsi e assume quella di venire informato dai media, soprattutto dalla TV, la libertà di opinione diventa quella dei mediatori, essi stessi soggiacenti alle determinazioni del denaro e del loro mestiere.
Il mediatore replicherà che si limita a rispondere alla domanda, che anche lui non è che un «media»: un intermediario che aiuta l’opinione non solo ad informarsi ma ad esprimersi. Ma forse è proprio questa la cosa più grave. Come ogni industria, i mass media devono tener conto del loro materiale: la massa. Da qui la moltiplicazione delle inchieste e l’audience permanente della TV: una trasmissione i cui indici d’ascolto sono troppo bassi viene soppressa, oppure rimandata ad un’ora in cui i telespettatori sono a letto. Poiché chi dice media dice mediocrità, grande è la tentazione di puntare al basso ventre ed i media non se ne privano. Rendono la massa sempre più massiva, e quando non c’è la costruiscono.
La formazione di una vera opinione è il frutto di una informazione interpersonale, spontanea e attiva. L’informazione mediatica ne fornisce un surrogato, realizzato da una massa di atomi isolati, passivi davanti alla loro macchina. Anziché informare le persone sulla loro vita reale, l’attualità sensazionalista le distrae, trasformando l’attore in spettatore. Al ritorno dal lavoro, non si chiede più alla televisione informazione ma oblio; si degrada in un western tanto più appassionante se considerato un riflesso della realtà. Sopraffatte da un flusso di avvenimenti discontinui, la memoria e la riflessione si perdono. Mentre valorizza cose e vedette alla moda, lo scoop riproduce stereotipi e conformismi fugaci. Invece di aprire una porta sull’aldilà, l’informazione mediatica «fa schermo», impedendo con ogni parola e pensiero non conformi qualsiasi possibilità di rinnovamento per la società ed i suoi membri.
 
Uno scoop: la guerra del Golfo
La guerra è un caso limite che, per diverse ragioni, pone in maniera particolarmente chiara l’attuale problema dell’informazione. In tale circostanza, si può informare liberamente l’opinione come suppongono gli specialisti dei media? Non esistono situazioni in cui l’informazione diventa impossibile, come in tempi di guerra in cui il silenzio e pure la menzogna — la disinformazione — diventano necessari? Surrogati che occorre fornire, reclamati a gran voce dal pubblico in determinati momenti. Non è forse il soldato o il civile direttamente informato dall’esplosione delle bombe lo spettacolo più sensazionale della guerra? Invece di premere il pulsante, varrebbe la pena rifletterci. Ma come avere silenzio in mezzo al fragore dei cannoni?
Le guerre moderne mobilitano i popoli. Si trasformano in una sorta di crociata dove la certezza di servire la verità prevale sull’obiettività. Mentre ci si arruola, la propaganda completa la censura che occulta l’informazione.
Ora, più che di un’altra guerra, l’opinione non riceve della guerra del Golfo che un’ombra mediatica. La parola guerra ci inganna. Questa non ha nulla a che vedere con quella vera: la guerra totale che ingloba il pianeta e la vita di ognuno. Fino alla perestrojka pare non ci sia stata che una guerra, quella tra gli USA e l’URSS, con le altre nazioni al seguito. E quella è stata l’ultima.
E proprio perché non è vera, la guerra del Golfo è così mediatica. In ogni epoca gli uomini si sono divertiti con battaglie distanti. Bisogno d’informazione? — Pur di uscire dal grigiore quotidiano, partecipare seduti in poltrona ad una tragedia reale che accade in quello stesso momento: altri muoiono, io vivo. Grazie ai media, posso sapere che un missile è appena caduto su Israele. Quante vittime? — Aspettiamo la prossima trasmissione. Saddam fa evacuare il Kuwait? — No, impone le sue condizioni. Bush le rifiuta, Gorbaciov interviene. L’assalto sta per essere sferrato? — L’ultimatum scade alle sei (le quattro meno dieci, sul mio orologio). Che suspence! I carri armati sono là sullo schermo, in attesa. Lo scoop si sussegue allo scoop; mai attualità è stata così sensazionale. Come nel 39-45, ma questa volta senza bombe e con la pancia piena, la notizia ci aspetta di ora in ora. A destra, a sinistra, a favore o contro, il fantasma della guerra mobilita le menti. Ma non i corpi.
A dispetto della mediatizzazione del rischio di terrorismo e di penuria, il nostro comfort e la nostra vita non sono affatto minacciati. Questa guerra locale non è totale, non contrappone le due vere potenze ma una superpotenza ed un tiranno del Terzo mondo che sogna l’Impero: Saddam non è Hitler, e non è Stalin. Impotente sul terreno militare, gli resta quello dei media. Inseguendo lo scoop, la CBS invia dei reporter a Baghdad e Saddam spinge la sua cortesia fino a farli alloggiare in un palazzo al riparo dai bombardamenti più o meno «mirati». Mentre nella vera guerra la presenza a Berlino di giornalisti alleati sarebbe stata impensabile. Beninteso, la censura nemica controlla tali «informazioni». In tempi di guerra, da una parte e dall’altra c’è solo propaganda. Essendo la conoscenza dei fatti reali riservata ai veri attori, ai media respinti lontano dal fronte dai militari resta il compito di riempire il vuoto per divertire l’Opinione. In mancanza di informazione, la si rimpinza d’ombre. Non potendo constatare sul posto le conseguenze della marea nera sulle spiagge del Kuwait, si tirano fuori dagli archivi televisivi fotografie di uccelli ricoperti di nafta. D’istinto, riteniamo più vera l’immagine dello stampato, mentre essa si limita a dare tutta la consistenza della realtà all’illusione o alla menzogna. Ricordiamo le sconvolgenti immagini del carnaio di Timisoara, non era che un carnaio spettacolare creato coi cadaveri di un ospedale; intanto non sapevamo nulla di quelli veri, alla Kolyma o altrove. La verità si conosce sempre in ritardo.
Si viene indirettamente informati di una guerra grosso modo solo molto tempo dopo. E dato che un’attualità manda via l’altra, chi si ricorda oggi dell’informazione fasulla data dai media nella sedicente opinione? Se esiste una critica, spetta a loro farla; farsi avanti occultando le questioni scomode è sempre stato il miglior modo di evitarle. Quanto a chi è dei vostri, non contateci, spetta agli specialisti della libertà e dell’oggettività informare il pubblico. Siccome sono democratici, può darsi che vi daranno la parola: due minuti al telefono o alle sette del mattino nella trasmissione «Grazie per averci lasciato parlare».
 
Accenno alle condizioni di una rinascita dell’opinione
Adesso che la guerra del Golfo è finita, chi ci salverà dal grigiore dei giorni? Meno male che se ne occupano i media, contiamo su di loro per distrarci dal vivere. Per una parte tuttavia il loro potere è grande soltanto perché risponde ad una nostra domanda. La potenza della tecnica e dei tecnici non è che un prodotto della debolezza umana. Ma se agisce, è per fornire un surrogato alla sete d’informazione, di conoscenza, di ogni mente umana. L’uomo non è il mero oggetto di una tecnica, d’altronde è libero. Spetta allora a ciascuno riprendere il potere di informarsi e di informare, invece di attendere seduti in poltrona che l’informazione cada dal cielo.
I media ce la forniscono premasticata. Perdiamo così l’abitudine di fare riferimento a noi stessi. E libertà ed uguaglianza sono solo parole che dissimulano l’ascesa di una società di massa informata da una oligarchia scientifica e tecnica.
[…]
Dato che i media tendono ad esercitare una influenza totalitaria, occorre accantonare una pubblicità-propaganda che tende ad invadere tutto, a braccare la natura e la libertà nei loro ultimi rifugi. Così come esistono «riserve naturali», bisogna mantenerne altre, lasciate al segreto, all’ignoranza e al silenzio, di cui informare solo di bocca in orecchio. Simili spazi, ultime spiagge o tribù, luoghi di raccolta o di festa, dovrebbero essere proibiti non solo allo stupro mediatico ma anche allo sfruttamento scientifico — punti di partenza di distruzione e di controllo totale.
Perché l’informazione mediatica è solo uno dei tanti ingranaggi di quel «Migliore — o Peggiore — dei mondi» a venire, che è la questione posta ad ogni individuo in questa vigilia dell’anno Duemila.
 
 
[Vice Versa, n. 35,  novembre-dicembre 1991,
 da PROPAGANDA-detergente del pensiero critico, Gratisedizioni, 2021]