Contropelo

Perché bisogna punire?

Catherine Baker

 

 

Il diritto penale, per definizione, è fondato sulla pena. Una pena è una sofferenza che viene inflitta. Nessuno osa più dire che la prigione permette ai banditi di riscattarsi. Essa non serve che a una cosa sola, in cui riesce del resto assai bene: punire. Anche i più timidi riformatori si scontrano con questa evidenza, addolcire le crudeltà della detenzione si oppone per forza con il suo principio: si tratta di una pena, è fatta unicamente per punire il colpevole, per essergli penosa.

Perché punire?

La punizione è radicata nella storia più arcaica dell’uomo, quella dei terrori supremi che gli uomini hanno tradotto in divinità dal cuore demoniaco. Non una religione che sia meglio dell’altra quando si tratta dei supplizi riservati ai dannati. L’inferno cristiano non ha nulla da invidiare all’inferno indù. In occidente, la condanna terribile della colpa nel corso del giudizio dell’anima dopo la morte è radicata nel culto orfico introdotto in Grecia fra il VII ed il VI secolo prima della nostra era; le sue origini si perdono nelle tradizioni vediche del secondo millennio. È verosimile che l’idea di una colpa punita nell’aldilà fosse già all’epoca ben antica. L’orfismo ha influenzato molto i Pitagorici, poi Platone. Sotto tutti i cieli, gli umani scandalizzati nel vedere l’eterna ingiustizia del mondo hanno cercato di ristabilire al soggiorno delle ombre l’impossibile equità.

Si deve punire. È un imperativo. Di quale ordine?

Viene punito colui che è giudicato colpevole di aver infranto la Legge, la quale varia a seconda dei gruppi.

La Legge non è l’espressione di una etica qualsiasi: al servizio del potere che dispone delle maggiori forze di coercizione, essa esiste solo per la sanzione. La Legge dell’Ambiente o la Legge di un gruppo ribelle possono affermarsi in modo brutale quanto quella dello Stato. Quale che sia la situazione, la Legge è sempre quella del più forte: il piccolo capoccia fa la legge finché non si ritrova di fronte a un capoccia più grande o a un padrone il quale può solo obbedire a tutta una gerarchia che dispone di forze sempre più importanti fino in cima. In democrazia popolare o borghese, è la polizia che fa rispettare la Legge, la Giustizia che punisce i contravventori. Fra la giustizia (l’equità) a cui ciascuno aspira e la Giustizia (l’istituzione) che fa funzionare la macchina sociale a scapito dei rapporti liberi fra gli esseri, l’abisso è insuperabile.

A malapena capace di parlare, il bambino è presto sensibile al sentimento di ingiustizia: quando ha male e piange (troppo) a lungo, si strilla, lo si culla, talvolta lo si picchia; o la sua sorellina ha trovato una palla, e lui no, oppure si è fatto pungere da una vespa, e lei no. Per tutta la sua vita, che si rassegni o si ribelli, l’uomo considererà le ingiustizie di cui sarà vittima come un qualcosa che non dovrebbe essere, altrimenti detto un male. La grandine può distruggere tutti i raccolti del contadino, la morte prendere l’amante adorata, i ladri svaligiarvi, la malattia colpire il bambino, il geloso bruciare la casa, lo Stato lanciarvi in guerra, una bimba può essere violentata. Poiché il male è insensato, l’uomo è oppresso da uno sgomento troppo grande, deve trovare una giustificazione alla ingiustizia. Da qui questa giustizia incomprensibile che proviene dall’alto, da qui questi dèi più o meno potenti, poi il più potente fra tutti e infine, in occidente, a partire dal medio evo, un Dio ragionevole (prima del tentativo fallito di farne, tre secoli dopo, la dea della Ragione).

 

Al ritmo della storia, il valzer delle idee

All’inizio si è punito per dimostrare agli dèi che si prendeva la loro parte contro chi, volontariamente o meno, li offendeva.

I primi codici sumeri nominano, classificano le infrazioni e scaglionano le pene in funzione della colpa (codice di Urukaniga redatto verso ~2400), ma bisogna attendere l’epoca romana perché il diritto sia razionalizzato nei minimi dettagli e diventi in gran parte una veduta dello spirito, poiché nei fatti resta, e fino ai giorni nostri, forzatamente sentimentale che dipende sempre dal grado d’emozione provocato dallo scandalo (in Francia a lungo si è bruciata la lingua dei sacrileghi; nel 2002 in un paese molto civilizzato come la Nigeria si lapidano le donne adultere). Le sanzioni appaiono esagerate solo quando l’infrazione stessa sta per essere decriminalizzata.

I filosofi hanno fatto fatica a giustificare la punizione (si può osservare che la clemenza non ha alcun bisogno di essere giustificata e che ovunque e sempre ci si è inchinati di fronte agli esempi che ne ha dato la storia).

Per tentare di far ammettere che è necessario fare del male a chi ha fatto del male, tre tipi di argomenti vengono messi in avanti da coloro che chiameremo i legalisti, i societari-realisti e gli umanitaristi.

1) Il pensiero legalista

La Legge è la Legge, anche se sembra ingiusta, ha la sua ragione di essere. Vista la piccineria degli uomini, la sua forza deriva dalla sola sanzione. La Legge dice dove è il Bene, viene da Dio, dalla Natura o dall’Umanità (in ogni caso da una parola con la maiuscola che dice la sua trascendenza). Questo Bene è dunque universale. Così che si deve obbedire alla Legge, si deve punire chi la trasgredisce. Così vuole l’Ordine delle cose. I legalisti sono uomini di fede. Credono davvero a questo Bene universale.

Il problema non è tanto quello del Bene — possiamo ammettere che ciascuno voglia fare bene per vivere pienamente al meglio — quanto l’universalità di questo Bene. Il Bene di quel omicida è di sbarazzarsi di questa madre che gli impedisce di vivere, il Bene di quel terrorista è di destabilizzare un governo per un altro «più rispettoso dei diritti dell’individuo», il Bene di quel sovrano è di «schiacciare l’asse del Male», il Bene di un assassino seriale è di «uccidere queste carogne che fanno soffrire gli uomini»...

Ma dato che per i legalisti il Bene è ciò che è contenuto nella Legge, la questione della sua universalità è risolta. Il Bene universale è totalitario, ma questo non è grave dato che è il Bene. I legalisti non possono letteralmente concepire che alcuni possano insorgere contro una frase come «Ogni uomo ha il diritto di respirare»; a loro sembra scontato che ognuno pensi in termini di diritti, autorizzazioni e doveri. (Ma del resto non esitano a sopprimere senza patemi d’animo questo «diritto di respirare» quando si tratta di punire qualcuno o un paese)

I legalisti e altri sostenitori dei Diritti dell’Uomo si richiamano volentieri a Kant: grazie alla sua ragione, l’uomo che si piega volontariamente alla legge morale vi guadagna in libertà interiore; non ha più la preoccupazione di farsi perché si è pensato per lui (è la grande libertà del soldato di seconda classe che striscia su un campo minato in confronto al generale che, lui, deve riflettere). Condannare chi ha trasgredito la legge morale significa farlo beneficiario del buon discernimento di tutti, significa considerarlo degno della più alta esigenza umana.

Hegel andò più lontano di Kant. Poco importa il contenuto delle leggi, quel che è assoluto è la Legge stessa poiché solo lo Stato e quindi le sue istituzioni garantiscono la libertà degli individui.

2) Il pensiero societario-realista

Si vuole puramente pragmatico. Bisogna organizzarsi per vivere in società. Questa riposa sull’adesione volente o nolente a valori comuni. Se non si gioca al gioco la Società vi respinge, il che significa che vi uccide o vi bandisce fuori dalla comunità (in esilio o in prigione). La Giustizia deve confortare ciascuno nell’idea che la Società lo protegge se rispetta le sue regole, le quali variano seguendo i paesi, le epoche, le mode.

Si corregge un criminale come si corregge, per questa gente, un cane o un bambino. Per insegnargli. La paura della correzione funziona solo sui più conformisti e sui più fragili. Nell’ambito della delinquenza, essa agisce in senso contrario: i "duri", a maggior ragione i più ribelli, affermano a voce alta di non aver paura della punizione. Spesso è vero che li stimola. A pragmatico, pragmatico e mezzo: quel che conta è di non farsi beccare, di giocare stretto. Perché si tratta di un gioco.

Nella visione societaria-realista, per vivere in armonia, ognuno deve rispettare le regole, evidentemente contingenti e convenzionali, il famoso contratto sociale. È proprio bello parlarci di secolo in secolo di regole del gioco, ma ci sono sempre stati individui a cui questo gioco non interessava. Possono ovviamente astenersi dal leggere su uno sdraio in mezzo ad un campo da rugby, così come evitare di mangiare il loro spuntino sul tavolo di bridge. Ma dove potrebbero andare dal momento in cui il pianeta intero non è che un immenso campo da rugby o un tavolo di bridge dove si svolge una partita senza fine?

Ma è il genere di osservazione che non può turbare i societari-realisti. Perché tanto peggio per i rari asociali: la sola cosa che conta è la Società che ha una vita, una vita che bisogna preservare, essa può in effetti morire, venire sostituita da un’altra. La Società è composta da individui-formiche che non hanno altra ragione che quella di appartenerle.

Realisti, molti dei societari constatano che le condizioni di vita modificano il comportamento dei delinquenti. Possono anche circondare di cavalli di frisia un "quartiere difficile" e rafforzare la polizia con truppe militari, e metterci degli educatori, svilupparvi l’aiuto scolastico, costruirci una sala da concerto e fare così effettivamente abbassare il tasso di delinquenza.

I societari-realisti vogliono l’efficacia, è per questo che né il crimine né il criminale hanno in sé la minima importanza. A tal punto che essi non vedono nessun inconveniente a fare entrare nel Diritto ciò che, in questo ambito preciso, si può considerare una pura aberrazione: il concetto di pericolosità. Si arriva a punire degli individui suscettibili di agire in un senso riprovato dalla Società. I societari-realisti pongono grandi speranze nei progressi della genetica.

A prima vista sembrano molto diversi dai legalisti. Eppure esiste un punto di unione: la Società è il Grande Tutto di cui gli individui sono solo le parti. Essa è oggi sacra quanto lo era l’idea di Dio, è l’Assoluto e la Legge è la sua emanazione. È il fallimento dell’ateismo.

Per i rari atei, come Max Stirner, l’individuo che vive nella Società può sempre, se ne ha la volontà, rifiutare di appartenere liberamente a questo conglomerato feroce. Non si può sfuggire alla Società né vivere senza di essa, ma si può pensare da sé. Nulla ci impedisce, segretamente o no, di combatterla come si lotta contro la morte o le ingiustizie. Con o senza violenza. Un sorriso pacifico o furioso sulle labbra e nello spirito. Ognuno solo con alleati possibili.

3) Il pensiero umanitario

L’individuo che ha sbagliato è per forza molto sventurato. La punizione gli permetterà di riscattarsi; «pagando il suo debito» al prezzo della sofferenza, potrà «rifarsi una vita». La prigione è una pensione dove egli comprenderà cosa sono il bene e il male, dove dei professionisti si dedicheranno a colpevolizzarlo meglio possibile per educarlo, cioè per portarlo a una buona condotta. Per fare ciò, condizionarlo, raddrizzarlo, istruirlo e trasformare le prigioni sterili in utili campi di rieducazione. Del secolo dei Lumi gli umanitaristi hanno ereditato una tenace fede nell’Uomo; le istituzioni sono il frutto del pensiero degli uomini e dobbiamo attraverso di esse ammirare l’intelligenza umana. Si può migliorarle, certo, anzi si deve. Perché si va verso il meglio, è «il senso della Storia»; i progressi tecnici vanno di pari passo con i progressi "umani", cioè... con la morale. «Un giorno ogni guerra verrà vietata» (In effetti è ben possibile, ma non saranno per questo meno atroci. Probabilmente saranno peggiori). Gli umanitaristi sfoggiano spesso un fondo di candido ottimismo.

Moralisti legalisti, societari-realisti, e infine adepti di un pensiero umanitario hanno certo degli argomenti, ma nessuno ha saputo convincerci.

 

Il desiderio di punire

È a posteriori che si giustifica la punizione. Perché prima della ragione, c’è il desiderio.

Derivando da una emozione violenta, in generale la rabbia, la punizione passa per essere amministrato freddamente. Ma al cuore di ogni punizione, il piacere di tenere qualcuno in proprio potere, di mostrare chi è il più forte. A torto o a ragione, il punitore, fosse anche un assassino in serie, ha la ferma assicurazione di essere dalla giusta parte, dalla parte della legge, dell’ordine, del buon diritto. Non si vuole mai il colpevole, ma un colpevole. Non è necessario che sia l’autore di un misfatto, un capro espiatorio andrà altrettanto bene. È magico. I partigiani della punizione fanno tutti come se, per una specie di felice fatalità, i colpevoli fossero puniti e i giusti ricompensati.

Ora, gli errori giudiziari sono costanti. Ma occorre che i danni siano spettacolari (teste cadute a torto, una vita per niente dietro le sbarre, ecc.) perché esse riescano a commuovere chicchessia. I criminologi e i poliziotti lo sanno bene ma eccita tutti il fatto che si abbia arrestato il colpevole (lui o un altro), che si stia per poterlo punire. Va notato che il desiderio di punizione è il frutto di una cultura fondata su un determinato codice. Vi fa parte una forma di dovere, di sottomissione alla legge del proprio ambito. Ogni verdetto è socializzato, codificato, ritualizzato. Fin dall’antichità si ritiene che la Giustizia di Stato sostituisca le vendette private. Fallimento su tutta la linea. La punizione penale genera un bisogno di vendicarsi che si scarica su terzi. L’uomo umiliato picchia la moglie, che prende a sberle i figli, che maltrattato il cane, che morde il primo venuto. Bisogna rinunciare a questa chimera di una vendetta che, esercitata dallo Stato al posto dei singoli, diventerebbe pura e disinteressata. Essa non è affatto più bella e intelligente dell’altra. Quando la Giustizia punisce un ladro, provoca in tutti i ladri il bisogno di vendicarsi.

L’idea di una Giustizia che restituisce il male al male non può portare che al disprezzo di ogni giustizia.

Tuttavia conserviamo in un angolo del nostro cervello l’idea che alcune persone hanno sempre considerato lo spirito di vendetta come se fosse loro estraneo, preferendo ignorare (cioè dimenticare) chi le ha offese, perdonarlo o esigere spiegazioni. E se d’altronde la tentazione di vendicarsi resta comune, non tutti vi soccombono per forza. Nessuno è al riparo dall’odio o dall’idiozia, ma si può comunque auspicare di non essere né in preda all’odio né stupidi, o il meno possibile. Nulla ci obbliga a partecipare a questa curiosità vischiosa delle persone perbene nei confronti dei fatti più sanguinosi.

Il pubblico va pazzo per i crimini, gli stupri o i supplizi. La sofferenza altrui stuzzica il sadismo che cova in noi. Domandare poi che colui che ha fatto del male vada incontro ad una pena che faccia veramente male autorizza il piacere, intenso per alcuni, di fare del male a loro volta in tutta legittimità e in tutta impunità. C’è un che di patologico nell’esaltazione provata da alcun i a castigare chi ha commesso una colpa.

La volontà di punire è all’origine di quasi tutti i crimini di sangue non accidentali. Oscure storie di gelosia o di regolamenti di conti. Ma il peggiore assassino in tutta la storia dell’umanità non potrebbe competere con i professionisti della repressione. Le punizioni ordinate dalla giustizia superano in crudeltà tutti i crimini più barbari. I giudici di oggi non sono né più né meno crudeli di quelli che vi erano tre secoli fa in Francia, o un secolo fa in Cina, ad esempio. Spediscono qualcuno in prigione per dieci anni perché questo è il tariffario. Non esiterebbero a far tagliare mani, a condannare fuorilegge a venir impalati, bruciati vivi, scorticati, linciati... Ogni giudice odierno applica la legge della sua epoca esattamente come avrebbe applicato o applicherebbe quella di un altro codice. Non siamo né migliori né peggiori che all’epoca della preistoria. Un po’ più pervertiti, forse. Ma ci sono stati, ci saranno sempre degli individui che diranno no.

Si ode spesso dire «I criminali non hanno avuto pietà della loro vittima, perché dovremmo averne noi?». Perché noi non siamo tutti assassini, malgrado questa idea stravagante spesso così espressa: «se non si punissero violentatori e assassini, tutti diventerebbero stupratori e assassini».

 

La punizione non serve a niente

Innanzitutto è inutile. I giuristi riconoscono alla pena cinque funzioni: retribuzione, intimidazione, esemplarità, ravvedimento ed eliminazione o neutralizzazione temporanea.

a) La retribuzione. Il primo significato (ma forse anche ultimo) è religioso: i buoni saranno ricompensati, i cattivi saranno puniti. Che cosa è bene? O quello che vuole Dio, oppure Dio non esiste ed è l’uomo che decide cosa è bene o male in funzione delle civiltà in cui evolve. A disprezzo di ogni buon senso, la retribuzione è l’affermazione che in questa vita il cattivo è punito e l’uomo buono al tavolo d’onore.

Si punisce solo un inferiore, chi si è voluto mettere in condizione di inferiorità: il bambino, il subalterno, lo schiavo o l’animale. Un accusato è sempre trattato da inferiore. Tanto più se è povero (quando l’accusato è ricco, il paese è sottosopra, «non ci si capisce nulla»), il povero non ha parole per spiegarsi, per difendersi. Il furto è incomparabilmente più diffuso e più costoso per la società nelle alte sfere degli affari e della finanza; queste ingegnose appropriazioni non stupiscono granché. Il furto come l’omicidio sono molto ammirati quando sono ben fatti; quel che resta sconvolgente per la morale, è di fatto il lato triviale della delinquenza.

Ma è vero che l’uomo teme di essere ammazzato. Viviamo alla mercé di tutti coloro che ci circondano, nel XXI secolo come ai tempi più lontani della preistoria. Fra tutte le specie, la specie umana è la sola ad ammazzarsi in maniera sempre più aleatoria man mano che evolve. Ma fortunatamente ci resta qualcosa dalle grandi scimmie, ed è quel che ci protegge in tempi di pace da troppi omicidi. Tuttavia ne avvengono alcuni. La polizia, in particolare al servizio delle scomparse, sa molto bene che molti crimini di sangue, spesso commessi dai parenti della vittima, restano impuniti. Il crimine perfetto esiste.

La criminalità reale è talmente più importante della criminalità repressa che c’è da domandarsi a quali ingenui si rivolgono le rappresentazioni dei processi e delle prigioni.

«Crimine: in Diritto, infrazione che le leggi puniscono con pena afflittiva o infamante» (Petit Robert). In sé, il crimine non esiste. Le nostre vite vengono distrutte da aggressioni infinitamente maggiori di quelle che passano per i tribunali. Ma è rassicurante «tenere il colpevole». Né più né meno che in certe tribù, dette primitive, in cui si va a reclamare presso la popolazione vicina il prezzo di sangue per chi, morto di malattia, non poteva essere altro che "stregato". Questione di fede.

Per un cittadino la questione non è di sapere dove stanno il bene o il male, ancor più cosa significano queste parole, ma di piegarsi alle leggi. Per il Diritto, le coscienze individuali e i loro allarmi non hanno la minima importanza. Il Diritto è questa convenzione fragile che si basa solo sulla volontà di tutti di obbedire (per comodità). Una società non può vivere senza questa sottomissione. Leggi antisemite nel passato, pacchetto sicurezza nel presente: liberi di trovarle scellerate, ma trasgredirle comporta una punizione dai penosi effetti.

L’autore di un delitto o di un crimine ha spesso dovuto scegliere fra due leggi: un giovane non può permettersi di sfidare le leggi sessiste del suo clan senza subirne le conseguenze, una punizione severa: egli deve partecipare, ad esempio, ad una «spedizione punitiva contro i froci». Rifiutare significa essere un non sottomesso, il che comporta per forza di cose spiacevoli conseguenze. Normale. La legge al di sopra delle leggi è quella dello Stato e nessuno cerca di farcela bere che essa sia la migliore, ci cerca semplicemente di mostrarci che dispone di mezzi di coercizione più estesi ed implacabili di quelli degli altri bruti. Ma questo dovrebbe ben fare riflettere chi vede nella sanzione una esigenza della retribuzione.

«Non si può comunque lasciare liberi di agire i criminali». Ripetiamo che la stragrande maggioranza di loro non vengono mai arrestati né puniti, e che i criminali un giorno o l’altro ritroveranno la loro libertà. La questione potrebbe acquisire senso se ci si domandasse come impedire ad un individuo pericoloso di nuocere. A priori non si capisce perché chi abbia commesso una tale azione sarebbe più pericoloso di chi non l’abbia ancora commessa, cioè chiunque. Abbiamo già detto prima che un individuo diventa pericoloso solo in un determinato contesto: possiamo esserlo tutti. È sulle situazioni che possiamo intervenire, non su «colui che ha agito», tanto meno su «colui che non ha ancora agito».

Alcuni giudici desidererebbero poter condannare il crimine senza condannare il suo sventurato autore, ma non potrebbero nascondersi il fatto che il biasimo in sé è già violento non appena qualcuno viene accusato di aver commesso un delitto o un errore. Nello stato attuale delle cose, il processo è sempre una cerimonia di degradazione, vi copre di obbrobrio anche quando verrete rilasciato alla fine del dibattimento.

Ognuno fa quel che può in un determinato momento. Ciò che può dipende dalla stima che egli ha verso se stesso. Nulla è più urgente che rendergli questa stima. prima di condannare. Prima di giudicare. Prima di accusare. Prima di ogni altra cosa.

b) L’intimidazione. Non si può negare che la paura della polizia influenzi certi comportamenti (sulla strada, per esempio), ma la punizione fa paura solo a quelli che si intimidiscono facilmente, quelli che sulle rotaie non rischiano di deviare dalla strada giusta. Più il castigo è pesante, più si presume che si sia spaventati e stralunati. nel corso dei secoli, si è cercato di immergere un dito o i panni nel sangue dei suppliziati. In Francia si dovette sopprimere le esecuzioni pubbliche nel 1939, da tanto il sangue dei ghigliottinati scatenava scene di isteria collettiva stranamente più vicine all’amore che al risentimento sperato.

c) L’esemplarità. Per i ladri, i truffatori, gli spacciatori di falsa moneta, la prigione rappresenta il rischio professionale. I mestieri pericolosi come quelli del pescatore o del minatore non hanno mai avuto problemi di manodopera; al contrario, essi esercitano un forte potere di seduzione e un autentico attaccamento da parte di chi li hanno scelti.

Quelli che non si lasciano intimidire, i "delinquenti" rivendicano il loro ingresso in prigione come l’intronizzazione nel mondo dei duri. Certo, spesso si tratta di una commedia. Ma, nell’ambito della delinquenza, è una questione di dignità sapere mostrarsi dei bei perdenti. Presso i teppistelli, è comune giurare «Il gabbio non mi fa paura», anche se la prima notte in prigione si batte i denti e ci si sente impallidire. Davanti ai suoi ammiratori — l’esemplarità gioca solo in questo senso — chi è stato liberato trae la sua lezione dalla incarcerazione affermando: «Me la pagheranno!».

d) L’ammenda. Alcuni ingenui sembrano attendersi dalla prigione che il detenuto rifletta e rimpianga quel che ha fatto. Tranne in casi del tutto eccezionali, quando c’è stata la morte di un bambino o dell’essere amato ad esempio, il rimorso è rarissimo e si può supporre che sarebbe stato identico nel caso in cui l’autore di un tale atto non fosse stato arrestato.

Il pentimento è legato a una colpa. Ma quel che è colpa ai propri occhi solo in casi rarissimi ha a che vedere con la Legge. Il rimpianto provato da un detenuto è il più delle volte quello di essersi fatto prendere o di aver mancato un affare d’oro. Quanto a quello che si esige da lui nel momento del processo, si tratta solo di decolpevolizzare giudici e giurati convalidando l’atto di accusa.

e) L’eliminazione. Di tutte le funzioni della pena detentiva, è la sola che riporta ancora i favori di buona parte della popolazione.

Molte persone sarebbero d’accordo nel far sparire i turbatori, ma «senza far loro del male». Come si può immaginare di «non fare alcun male» a uomini che vengono privati della libertà, vengono separati dagli esseri attraverso cui vivono, che si taglia dal loro passato e dal loro avvenire?

«Mentre sono reclusi, almeno si ha la pace». Ma insomma, migliaia di malfattori vengono liberati ogni anno. Alla fine la questione diventa questa: bisogna lasciarli uscire?

 

Punire è pericoloso

Qualsiasi assassino vede bene in prigione che la vita di un uomo non vale nulla. «Ma se la sono meritata, questa punizione!». La maniera con cui si puniscono gli altri rivela sempre a quale grado di crudeltà si può arrivare. Sarebbe vano pensare contro questo mondo, respireremo meglio solo respirando altrimenti.

Poiché non si può concepire la vita altrimenti. Abbiamo già detto che in alcune famiglie era escluso umiliare il bambino con il castigo, la sanzione, la minaccia, la punizione che sono le armi di chi si vuole più forte contro il debole e non fanno passare da generazione in generazione che una cosa sola, il gusto perverso per le autoflagellazioni o il desiderio di punire. Ovviamente questo suppone che si sappia dire no e riprendere il bambino amato senza ferirlo; rari sono i genitori che ne sono capaci.

Un bambino che non ha mai conosciuto la clemenza quando ha fatto una sciocchezza non proverà alcuna pietà dinnanzi alle sue vittime. Allo stesso modo, chi sarà stato condannato freddamente a una pena severa per una rapina non esiterà ad uccidere altrettanto freddamente nel corso di un prossimo colpo.

La prigione chiama la recidiva perché getta fuori persone squilibrate, miserabili, perdute per tutti, ma anche perché molti delinquenti «si sono fatti» in prigione, questa è diventata il posto dove essi hanno costruito come hanno potuto la loro personalità di "cattivi ragazzi", che è l’unico rifugio della loro vita di merda.

Quando si punisce si vuole far espiare a qualcuno la sua colpa. Si presume che il dolore inflitto al colpevole ristabilisca un equilibrio: bisogna controbilanciare il crimine con una sofferenza equivalente. Che idea! Allora, sarebbe giusto buttare vetriolo addosso alla donna che ha buttato vetriolo addosso alla sua rivale, sarebbe giusto violentare l’uomo che ha violentato.

Sarebbe giusto, ma crudele e imbecille. Perché agiremmo liberamente da scellerati in nome della Giustizia? È aberrante pensare che un male compensi o annulli un altro male. Lo moltiplica. Tocca il colpevole, ma anche tutti i suoi vicini.

Quando si fa del male a qualcuno, egli diventa una vittima. I detenuti sono tutti delle vittime, non «vittime innocenti», ma che lo si voglia o no, delle vittime.

 

«L’inezia consiste nel voler concludere» (Flaubert)

Non servirebbe a nulla sollevare la questione del castigo se fosse risolta o sul punto di esserlo. Si va verso una repressione crescente e non è questo il momento di parlare di sopprimere le prigioni. Ma la soppressione di questa punizione crudele quanto irrazionale deve essere discussa nel momento meno opportuno, è il solo mezzo perché un giorno sia finalmente il suo momento.

Quando una soluzione è cattiva, è ignavo non osar porre la questione con il pretesto che ci immergerebbe nello sgomento. Se un regime qualsiasi avesse deciso di risolvere il problema della delinquenza dipingendo gli alberi di rosso, che rischio correremmo poco tempo dopo a riconoscere che ciò non serve a nulla? Imprigionare le persone o dipingere gli alberi di rosso, è la stessa cosa.

Spetta ad ognuno domandarsi se pensa che è bene far soffrire qualcuno perché gli si è attribuito il torto di aver a sua volta provocato sofferenza. Alcuni ribatteranno: «Personalmente non ho alcun interesse a reclamare una punizione per qualcuno che non mi ha fatto nulla, ma si tratta degli interessi della Società e ci tengo a difenderli». Che differenza c’è fra il male commesso nell’interesse della detta Società e quello commesso al suo interno?

Anche se ci si riferisce all’aspetto sociale della questione, sappiamo che la prigione è inutile perché i delinquenti ne escono altrettanto delinquenti. Essa è soprattutto pericolosa: quando essi si ritrovano fuori, i vecchi galeotti, dopo aver ingurgitato le innumerevoli umiliazioni di cui abbiamo parlato, straripano odio e hanno fretta di vendicarsi. Le percosse, le ferite, gli stupri aumentano. Più una società è repressiva, più essa provoca brutalità fra i suoi membri (questione di solidarietà meccanica). Ma inoltre, e questo è mettersi in una ben sporca posizione, tutti fanno come se la prigione risolvesse la questione, essa acceca così le coscienze, nasconde l’inanità della risposta, impedisce che si rifletta a una soluzione.

Nella maggior parte dei paesi la pena di morte è stata abolita: perché ci sono per forza di cose degli errori giudiziari senza possibilità di restituire gli anni di vita strappati, perché solletica il sadismo di molti, perché è inutile. Queste tre ragioni restano valide anche per quanto riguarda l’incarcerazione.

Dobbiamo ripeterlo: la reclusione alla mercé delle guardie, le peggiori umiliazioni che un uomo possa vivere, la separazione da coloro che ama, in una parola la prigione, tutto ciò è una tortura. Molti auspicano che rimanga così. Altri non ne hanno alcuna voglia. Essi ritengono addirittura che essa sia distruttiva non solo per coloro che vengono messi sotto chiave, ma per tutti.

Tuttavia la prigione è solo un epifenomeno, è la grande punizione solo perché c’è stato giudizio. Ed anche il giudizio ci opprime. Nessun uomo può giudicare un altro. Non perché è evidente che ognuno di noi è capace del peggio, ma perché manchiamo di intelligenza e la coscienza altrui rimane insondabile. Chi giudica condanna. Chi condanna distrugge. Ogni pena è per definizione dolore, impossibile uscire da là.

I sistemi crollano, per quanto solidi appaiono. L’Ancien Régime o le repubbliche sovietiche hanno vacillato nel vuoto di colpo. Il sistema penale durerà ancora a lungo. Oppure no.

Nel 1610 vennero bruciate in Spagna undici streghe davanti a 30.000 spettatori entusiasti e sicuri della buona giustizia di questi roghi. Fu una bella festa. Quattro anni dopo, la Spagna rinunciava a questa crudeltà e si stupiva di averla fatta durare così a lungo. Senza che nulla trasparisse, per lunghi anni erano state avanzate delle argomentazioni che arrivarono a minare le fondamenta dell’edificio che risplendeva ancora dei suoi atroci fuochi appena prima della sua scomparsa.

La prigione può e deve sparire, perché è afflittiva, un disastro volontariamente organizzato da uomini contro altri uomini, perché è un supplizio, perché una punizione è sempre un sordido affare. Vivendo in società senza potervi sfuggire, nulla ci impedisce di insorgere contro quanto essa genera: punizioni, violenza, lavoro, denaro. Possiamo rifiutare la nostra alienazione, ribellarci con costanza, reagire, riflettere.