Macchianera

Niente in Comune

 

Posse

Istituzioni del Comune

Manifestolibri, Roma 2008

 

 

Manco a farlo apposta, stavo come spesso capita naufragando in rete e mi aggrappavo qua e là ai link che più mi ispiravano, quando ad un tratto mi è passato davanti il sito di Posse: «Ah! Ma esce ancora? Ora fanno un sito? Buon per loro». Ciò esclamato, ho continuato la mia deriva virtuale come se niente fosse (non sono propriamente fedele di S. Antonio da Padova). Ma poi, ripensandoci, la curiosità mi ha spinto a tornare indietro. Da quanto avevo intravisto, Posse dedicava ampio spazio alle «Istituzioni del comune». E questo subito dopo la cancellazione della sinistra parlamentare dal Parlamento! Mica potevo perdermi l’occasione. Cosa avranno da dire gli eruditi teorici della Moltitudine insorgente a proposito dell’improvvisa scomparsa dei loro mezzani di palazzo preferiti? 

Così, ho cominciato a tuffarmi in quei testi. Ammetto subito che la mia non è stata una lettura approfondita; diciamo che ho dato una buona occhiata. A tutto c’è un limite, anche alla curiosità. Il gergo post-autonomo scroto-negriano riesce a nausearmi in fretta da tanto mi ricorda il latino arcaico dell’antica Chiesa. C’è in esso la stessa volontà sacerdotale di esprimersi in una lingua arcana per meglio tenere in pugno la vile plebaglia. «L’uomo è pronto a credere a tutto, purché glielo si dica con mistero», ammoniva un poeta. Deve essere per questo che preti & politicanti, cioè coloro che aspirano al ruolo di pastori delle umili greggi, amano tanto il linguaggio esoterico. A volte però, soprattutto sulla spinta di eventi particolari, le formule più bizzarre e incantatorie sono costrette a lasciar trapelare una certa schiettezza. 

Dunque, per la prima volta dal 1882 — periodo fascista a parte — la sinistra non ha più un deputato in Parlamento. Non un solo raggio di arcobaleno illuminerà l’austera sala, niente di niente. Da chi pensa che Guy Fawkes, Auguste Vaillant e Marinus Van der Lubbe siano stati i soli galantuomini che abbiano mai messo piede in edifici del genere, la notizia in sé va quasi accolta con un’ovazione. 

126 anni di tradimenti, di compromessi, di ipocrisie; 126 anni trascorsi a contrastare i malfattori, gli agenti provocatori, gli untorelli che si annidano fra i sovversivi; 126 anni di realpolitik che ha addomesticato la rabbia rivoluzionaria trasformandola in civile protesta; tutto questo si è interrotto in un fine settimana di aprile. Ma per chi era abituato a giocare di sponda con gli “onorevoli compagni” in una prospettiva “di lotta e di governo”, si tratta di un colpo terribile. A quelli di Posse, che già avevano fiutato l’aria, non resta che fare buon viso a cattivo gioco. Invece di strapparsi i capelli, si affrettano a rilanciare il proprio progetto. Del resto, il loro smodato entusiasmo per il mondo in cui viviamo («la rivoluzione mondiale è in corso», ma vi rendete conto di che razza di culo abbiamo?) vieta loro ogni malumore. Se oggi il movimento è costretto a fare una battuta d’arresto è solo per meglio procedere trasversalmente in avanti.

Ma avanti dove? Questo è il problema. In un momento in cui si consuma fino in fondo la tanto denunciata crisi della rappresentanza, in un momento in cui non c’è rimasto più nessuno che possa tradurre in diritto le proposte avanzate dalle lotte sociali, quale tratto potrà e dovrà assumere il «rapporto costituente fra movimenti e governo»? Tutta la loro affannosa riflessione ruota attorno a questo interrogativo (anche per evitare preventivamente pericolosi deragliamenti). L’unica certezza rimasta loro è che questo rapporto vada comunque instaurato, per il bene di tutti. Il trionfo della destra più becera e retriva rischia infatti di mettere fine a una dialettica che viceversa va coltivata, migliorata, approfondita. Inutile piangere troppo la dipartita della sinistra parlamentare, anche perché in fondo questa sinistra se l’è meritato. Sentiamoli: «Un po’ di tempo fa indicavamo come oramai dispiegato il fenomeno di scollamento fra rappresentanza politica e movimenti, fra agire amministrativo e nuovi bisogni portati dalla modificazione della composizione sociale. Si avanzava allora l’idea di un rovesciamento relativo all’asse di programma politico tra partiti e movimenti. Non funzionava il dispositivo che vedeva nei movimenti una spia di contraddizione sociale, che andava sciolta sul piano normativo attraverso un’opera di traduzione e inserimento nel quadro programmatico custodito dal partito, o meglio non solo si contestava l’idea che le insorgenze sociali dovessero essere subalterne all’agenda riformista, ma anche il fatto che lo spazio politico di quel riformismo caro alla sinistra radicale fosse chiuso. Il rovesciamento che indicavamo si basava su una concezione dello spazio politico come luogo dove potesse esercitarsi un primato delle lotte sociali che i movimenti portavano avanti sull’agenda e il quadro programmatico della governance rappresentativa di sinistra, che avrebbe dovuto ritagliarsi fondamentalmente funzioni di servizio».

Insomma, c’è aria di tempesta in casa della “sinistra radicale”. Dopo la batosta elettorale è giunto il momento della resa dei conti. Chi stava al governo non dava credito a chi andava in piazza, il quale l’aveva avvisato dei rischi cui sarebbe andato incontro se si fosse intestardito a snobbare le aspirazioni che partivano dal basso, ed ora quest’ultimo si prende la sua rivincita: «pezzo di cretino, non mi hai dato ascolto ed ora hai visto cosa è successo? non sono io che ti devo fare da cameriere, sei tu che lo devi fare a me!». Ecco qui tutta la sostanza del contendere: chi spinge chi? È il partito che deve indicare i punti di attacco delle lotte, o sono le lotte a determinare la linea del partito? È facile prevedere che il dibattito in materia sarà lungo ed aspro, ma è altrettanto facile scorgere quale sia la vera posta in palio. La proficua sintonia fra istituzioni e movimento, il loro felice matrimonio. L’ipotesi di sancirne il divorzio definitivo non viene  mai presa in considerazione da costoro, perché non è politicamente produttiva. Per Posse la presenza di un referente istituzionale è ovvia, scontata, indispensabile.

Il perché è presto detto. Per loro il governo ha la forza normativa, ma non ha creatività: è potere costituito, con tanti muscoli ma niente cervello. Il movimento invece è sprovvisto di autorità, ma è ricco di intelligenza: è potere costituente, gracile ma pieno di talento e d’imprevedibile genio. Ogni progresso, ogni evoluzione, ogni passo avanti della storia deriva dall’incontro fra questi due handicappati, che si mettono l’uno al servizio dell’altro. Un rapporto conflittuale, il loro, ma pur sempre fecondo. A differenza di chi vede nello Stato una forza oppressiva e parassitaria, perciò un nemico da distruggere, i Negri boys lo vedono come una forza necessaria ma imperfetta, quindi un interlocutore da influenzare. Con un nemico non si discute e non si tratta, lo si combatte. Con un interlocutore, viceversa, per quanto possano essere diverse le vedute e gli interessi, per forza di cose si dialoga, si contratta, e quando si alza la voce è solo per attirare l’attenzione dell’altro e invitarlo ad un tavolo comune. Per i nemici dello Stato le lotte devono ostacolare e fermare la  folle corsa istituzionale, per i suoi interlocutori esse devono orientarla e stimolarla. Quando, sulla spinta delle agitazioni sociali, chi detiene il potere è costretto a riprendere e a far proprie alcune tematiche di chi lo critica, i suoi nemici insorgeranno contro il recupero delle loro idee (fatto negativo che neutralizza le lotte, indebolendo il movimento), mentre i suoi interlocutori esulteranno per il successo delle loro idee (fatto positivo che premia le lotte, rafforzando il movimento). Per questi ultimi ogni lotta, ogni rivolta, è solo uno strumento con cui fare pressione sul governo, una rottura che precede l’integrazione da un punto di forza più vantaggioso.

Ma, ora che non c’è rimasto nessun punto d’appoggio all’interno del potere centrale, cioè nel Parlamento, chi ascolterà le rivendicazioni espresse dal movimento? Che fare? Innanzitutto evitare di farsi prendere dalle «narrazioni tristi» che producono angoscia, sfiducia e scoraggiamento. Ecco quindi Posse blandire i militanti di sinistra delusi («donne e uomini per bene», «in buona fede», «donne e uomini di buona volontà») ed invitarli a rimettersi in marcia perché, nonostante le apparenze, la partita non è finita: «E per loro, per quella soggettività che residua tutt’altro che irrilevante, la questione se vi sia uno spazio politico, anche elettoralmente significativo, dentro le trasformazioni che stanno lavorando il sistema istituzionale della rappresentanza, è tutt’altro che risolta... I tremendi rischi ma anche le nuove occasioni di lotta, che tale scenario presenta, disegnano pure... lo spazio di una ricerca autentica, in grado di azzardare sperimentazioni che, anche sul terreno istituzionale, cerchino di mettersi in effettiva comunicazione con quanto si determina sul terreno del conflitto, dei movimenti sociali e della loro autonoma capacità di costruzione delle “istituzioni del comune”».

Ma se il percorso da seguire è chiaro — quello di un conflitto sociale in grado di «fare vivere un’istanza di nuovo programma» — lo è assai meno la sua destinazione finale. «L’istituzione del comune» è un’immagine rustica,  familiare, che cerca di conciliare la partecipazione dei molti con il potere dei pochi, di colmare la distanza che si è venuta a creare fra conflitto e politica. Ma è vaga. Anche se il marketing politico di Posse le attribuisce «una linea genealogica che va dalle fratellanze operaie alle società di mutuo soccorso, dalla Comune al Soviet, dai consigli operai alle assemblee e i comitati dell’autonomia operaia», resta il fatto che per ora si tratta solo di una parola d’ordine mobilitante, e nulla più. Un po’ poco per chi era abituato a contribuire a consulenze e progetti-legge, ricevendo protezioni e finanziamenti. Si tratta di una limitazione che non viene taciuta: «Non ci nascondiamo, tuttavia, le difficoltà di intervento politico che questa situazione comporta: difficoltà che attengono sia alla “stabilizzazione” delle lotte, al loro produrre forme di contropotere che garantiscano la riappropriazione di “quote di valore” (decisionale, simbolico, materiale), sia all’individuazione di funzioni di mediazione e “traduzione”».

Per dare un po’ di entusiasmo ad un popolo della sinistra piuttosto depresso, Posse porta alcuni esempi concreti dei buoni esiti registrati da un incontro fra movimento ed istituzioni. In attesa che dalla nebbia emergano i futuri interlocutori del «potere costituito», è bene sgombrare il già accidentato campo da eventuali perplessità sul conto dell’effettivo «potere costituente» del movimento. C’è forse qualcuno che tentenni ad «assumere il potere costituente non solo come fatto originario, ma come forza continua che si insedia nei processi costituzionali, come fonte di un’apertura indefinita e capacità di liberare il diritto, la costituzione sociale, dai limiti dell’egoismo proprietario e dell’invadenza totalitaria del capitalismo?». C’è qualcuno che osi domandarsi: «È possibile inserire il potere costituente come fonte — continua, instancabile, assoluta — di diritto nella Costituzione, nel potere costituito?». Per sciogliere simili fastidiosi dubbi è sufficiente volgere lo sguardo all’America Latina, dove «il potere costituente è infatti assunto come una forza giuridica che vive e produce continuamente effetti all’interno del potere costituito, nell’intimo della Costituzione. Il potere costituente è movimento istituzionale e istituzionalizzante. Pone la continuità della trasformazione strutturale all’interno della continuità istituzionale. Il potere costituente può dunque essere verificato come fonte interna dell’ordinamento giuridico. (...) Vale a dire che il rapporto tra movimenti e governo potrà finalmente essere riconosciuto come un processo immanente, come una capacità continua di produzione».

Se qualcuno pensasse che l’America Latina è troppo lontana per essere presa come modello, allora è bene che dia un’occhiata a quanto è accaduto in Val Susa. È vero che il suo contesto bucolico smentisce apertamente i precetti altrove enunciati su quale debba essere lo scenario del conflitto sociale («la metropoli è incontro e antagonismo, produrre ed essere prodotti, ed attualmente rovesciare il produrre contro l’essere prodotti — in uno spazio determinato che rappresenta per la moltitudine quel che la fabbrica era per la classe operaia. È evidente che su questo terreno bisognerà a lungo insistere ed approfondire la ricerca. L’organizzazione metropolitana è ancora lontana dal potersi affermare, eppure è su di essa che si spazializza e si determina in maniera concreta il tempo della moltitudine»), ma si tratta di quisquilie. La lotta valsusina è meritevole di essere elevata ad esempio da seguire per un preciso motivo, prettamente politico: «è noto come la compresenza coesa della dimensione istituzionale e di quella movimentista sia stata una delle ragioni principali dell’efficacia dell’opposizione valsusina: nei momenti più caldi del conflitto, i sindaci erano in prima fila a fronteggiare polizia e carabinieri. Questa intensa condivisione di obiettivi e strategie ha contribuito alla creazione di un circolo virtuoso tra agire amministrativo e partecipazione dal basso che ha segnato il punto più alto dell’esperienza di riappropriazione del potere decisionale che ha avuto luogo in Valle di Susa: consigli comunali, conferenze dei sindaci e assemblee popolari non rappresentavano che aspetti distinti di un medesimo processo decisionale complesso e tuttavia capace di prescindere quasi interamente dal meccanismo della delega».

Finché c’è Stato, c’è speranza. Se dopo il 13 aprile non si può più fare affidamento su deputati e senatori, rimangono pur sempre sindaci, consiglieri e assessori in mezzo ai quali procurarsi utili alleati. Fra gli amministratori locali, qualcuno con cui ritrovarsi in piazza o con cui discutere di autonomia (che è un po’ come discutere di pace con un sergente dell’esercito) lo si rimedia. Basta non perdere mai la bussola e imparare a memoria il ritornello che Posse non si stanca di ripetere. Il movimento deve essere extra-istituzionale, ma non deve mai diventare anti-istituzionale. Bisogna quindi essere cauti, realisti, e sapere cosa scegliere: «Pratica disutopica piuttosto che esaltazione utopista». Non bisogna dare ascolto ai cattivi maestri capaci di sostenere che istituzionalizzare non è altro che trovare una sistemazione su questa terra, cioè venire a patti con l’attuale situazione. Non bisogna ostinarsi a respingere ogni istituzione, anche quella del «comune», solo perché il suo compito è quello di regolamentare, controllare, governare. Con impareggiabile stile, ci viene spiegato senza ritegno che la genealogia del comune è un lungo processo che «si realizza dunque in una potenza normativa del tutto coerente con i movimenti sociali. Non si tratta dunque di un’istituzione qualsiasi, si tratta bensì di un’istituzione autonoma — essa riesce a creare l’organizzazione dei movimenti, così come riesce ad esercitare una continua proposta ed indirizzo normativi. Come abbiamo visto per il passaggio dal pubblico al comune, l’istituzione che produce norme, che comanda, deve essere non solo legittimata dall’apertura continua del potere costituente, ma continuamente rinnovata dalla partecipazione effettiva ed efficace dei soggetti». Di fronte a questa esaltante ed esaltata apologia di una potenza normativa che comanda coerentemente i movimenti sociali che la producono, la legittimano, la compongono e la rinnovano, vale la pena ricordare che nell’elencare le «forme di vita» valorizzate dal comune viene inclusa anche «la pace sociale»? 

Come si può vedere, l’immaginario statale impregna e domina ogni riflessione di Posse, ne costituisce l’orizzonte obbligato. Ma cosa potrebbe mai accadere se il movimento, dopo averne infine constatato l’assoluta inettitudine, snobbasse ogni sbocco istituzionale? Che tutte le lotte sociali tenderebbero ad assumere i tratti di rivolte senza mediazioni, irriducibili, incontrollabili, proprio come avveniva in passato prima dell’istituzione della rappresentanza. Un abominio da scongiurare, un vero incubo non solo per i più intelligenti funzionari di Stato (che non a caso fingono di prestare ancora ascolto ai portavoce della “sinistra radicale”), ma anche per chi approva la rivolta solo se questa è «una via d’accesso al politico». Nel  testo sui disordini e sulle lotte sociali scoppiate in Francia negli ultimi anni, l’autore — dopo aver annotato le iniziative degli squat e dei sans-papier in quanto gli «animatori nazionali di queste lotte sono diventati degli interlocutori dello Stato» — arriva dritto dritto al punto cruciale: «Vi è un’alternativa politica alla rivolta? Questo è il problema adesso. Questa alternativa non si trova sicuramente sulla scena della rappresentanza tradizionale (...) si pongono due problemi. Il primo è quello dell’aggregazione delle lotte, della messa in comune dei comuni dispersi. Il secondo è quello della “strategia” cioè del rapporto con lo Stato (...). Queste lotte non possono o non vogliono essere l’oggetto di una “rappresentazione politica” all’interno dello Stato. Lo spazio della lotta per un altro modo di vita comune e quello del potere sono oggi separati. Il pensiero strategico di tipo leninista ha perso la sua pertinenza. Bisogna dunque distaccarsi dalla questione classica delle elezioni? È difficile da pensare. Ma allora come agganciarle? Una delle piste all’opera se si abbandona la figura della rappresentazione elettorale è quella della scelta dei futuri interlocutori dei movimenti (...). Per questo, l’alternativa alla rivolta va senza dubbio ricercata nella tensione costante della trattativa con lo Stato (nazionale, locale o europeo). Da questo punto di vista la questione elettorale si prospetta così: dove si situano coloro che gestiscono questi territori e gli interlocutori del movimento nella scelta strategica che gli si pone oggi? (...) adesso bisogna costruire la metropoli quale attore collettivo e cooperante con capacità permanente di trattare con i luoghi della decisione politica e finanziaria nel quadro di una governance conflittuale». Parole una volta tanto chiare e illuminanti: ora che i tradizionali padrini parlamentari sono scomparsi o comunque delegittimati, bisogna trovare nuovi interlocutori statali con cui trattare al fine di trovare un’alternativa politica alla rivolta.

È una caratteristica di tutti gli intellettuali dediti alla critica politica, a cui i redattori di Posse non sfuggono, di essere affetti dalla «sindrome di Siracusa». Come Platone, anch’essi pensano che «i mali, dunque, non avrebbero mai lasciato l’umanità finché una generazione di filosofi veri e sinceri non fosse assurta alle somme cariche dello stato». Essendo preclusa la via della conquista diretta del potere politico, rimane loro soltanto la possibilità di sedurne i detentori con la grazia del proprio «general intellect». È da qui, da questa allucinazione cerebrale, che viene la passione per Machiavelli, insuperabile modello per tutti gli aspiranti consiglieri dei principi (soprattutto per chi è cresciuto all’ombra di Lenin, con la sua coscienza da apportare dall’esterno, e di Gramsci, con la sua egemonia culturale che precede quella politica). Se poi non ci sono più in circolazione personaggi della statura di Dionigi o di Lorenzo il Magnifico, pazienza: vorrà dire che i redattori di Posse si accontenteranno dell’esotico Hugo Chavez o della casereccia Livia Turco. Fortunatamente anche loro, come tutti i loro predecessori, sono destinati o a rimanere inascoltati o a porsi al seguito del potere che si erano illusi di guidare. 

Quanto alla cosiddetta «moltitudine», non si compiacerà mai abbastanza della perdita di una rappresentanza. I suoi disordini, non servendo più solo per attirare l’attenzione del sovrano da pedagogizzare ed indurlo ad accogliere a corte qualche sobillatore che gli porterà in dote le proprie competenze, potranno tornare ad essere quello che sono sempre stati: le esplosioni di rabbia di una volontà di vivere troppo a lungo repressa.

 

 

[da Machete n. 3, novembre 2008]