Brulotti

Viva Bresci!

Tre anni e quattro mesi. È questo il breve lasso di tempo intercorso fra la scomparsa di due uomini che il destino ha legato in modo indissolubile. Amici in vita e compagni di lotta, su di loro è sempre aleggiato il sospetto di essere stati complici in uno dei più celebri assassini della storia. 

Gaetano Bresci, il regicida, l’anarchico che la sera del 29 luglio 1900 aveva ucciso Umberto I, morì ufficialmente il 22 maggio 1901 nel carcere di Santo Stefano, “suicidato” dallo Stato. Giuseppe Ciancabilla, redattore di varie testate sovversive, considerato il primo vero teorico dell’anarchismo autonomo, morì il 16 settembre 1904 in un ospedale di San Francisco, per malattia. Al momento della loro morte, avevano entrambi poco più di trent’anni.
Non fu una lunga amicizia, la loro — essendosi conosciuti solo alla fine del 1898, negli Stati Uniti. Il tessitore di Prato vi era emigrato in cerca di fortuna, mentre il giornalista di Roma vi era giunto sulla via dell’esilio. 
 
Il primo è un frequentatore di circoli anarchici fin dall’età di quindici anni, già condannato per oltraggio alla forza pubblica nel 1892, schedato come «anarchico pericoloso» e spedito al domicilio coatto a Lampedusa nel 1895. Tornato in libertà l’anno successivo grazie a un’amnistia, dopo aver cercato inutilmente lavoro in Toscana decide di partire per il nuovo continente. Sbarca a New York il 29 gennaio 1898 ed ovviamente si stabilisce nella vicina Paterson, nel New Jersey, la più importante area industriale tessile del paese, dove trova ben presto un’occupazione. 
Il secondo, giovane reduce della guerra in Grecia contro la dominazione turca, battagliero redattore-capo del periodico socialista Avanti!, nonché dirigente del Partito Socialista Italiano, abbandona il partito riformista di Turati disgustato per i suoi compromessi e tradimenti. Nel novembre 1897 annuncia pubblicamente di aderire al movimento anarchico. Le “leggi speciali” allora in vigore, che punivano chiunque osasse dichiararsi nemico dello Stato, lo costringono a lasciare il paese e a peregrinare per mezza Europa.
Siamo quindi nel 1898. L’Italia è un paese in cui la fame e la miseria fanno sentire i loro morsi e fin da gennaio l’aumento del prezzo del grano scatenerà proteste e rivolte dappertutto — e soprattutto nelle Marche, in Puglia, Sicilia e Toscana — sedate regolarmente dal regio piombo. Fin dai primi mesi dell’anno è un crescendo di eccidi proletari, compiuti per reprimere scioperi e manifestazioni. Già nel mese di febbraio viene proclamato a Perugia lo stato d’assedio, poi il 2 maggio a Firenze e due giorni dopo a Napoli. Ma la città dove la «protesta dello stomaco» desta più preoccupazioni è Milano, teatro di vivi disordini. Qui il governo, presediuto dal marchese Antonio Di Rudinì, il 7 maggio dichiara lo stato d’assedio ed affida al generale Bava Beccaris il compito di reprimere la ribellione. L’8 maggio, il generale ordina ai suoi uomini di aprire il fuoco con i cannoni sulla folla: «Mirate bene, colpite giusto». È una strage, una carneficina. Centinaia e centinaia di uomini e donne, di vecchi e bambini, cadono falciati. Le stime ufficiali parleranno di una novantina di morti e 450 feriti, mentre secondo alcune testimonianze le vittime furono almeno 300 e quasi 900 i feriti. Il temuto assalto rivoluzionario viene sventato, l’ordine ristabilito in un bagno di sangue. Di Rudinì approfitta dell’occasione per fare piazza pulita, sopprimendo 110 giornali di opposizione, tutte le Camere del Lavoro, i circoli socialisti, le Società di Mutuo Soccorso, nonché — per maggior sicurezza — 70 comitati diocesani e 2500 comitati parrocchiali. Vengono chiuse anche le Università di Roma, Napoli, Padova e Bologna ed eseguiti migliaia di arresti, che porteranno a condanne per 1400 anni di carcere. Un mese dopo, il 5 giugno, il generale riceverà dal re buono la Gran Croce dell’Ordine Militare dei Savoia «per i preziosi servigi resi alle istituzioni e alla civiltà». Il 16 giugno gli sarà assegnato pure un seggio al Senato come ricompensa per il massacro perpetrato.
 
Già residente in America, Bresci rimane sconvolto alla notizia dell’eccidio e piange lacrime di rabbia. Intanto Ciancabilla, che in quel momento si trova in Francia e collabora col giornale Les Temps Nouveaux di Jean Grave, comincia a tuonare contro il quietismo dei socialisti deprecando l’impreparazione rivoluzionaria degli insorti: «I grandi predicatori di pace erano soprattutto i socialisti. Dovevano sempre attendere, e nell’attesa addormentavano gli spiriti con l’illusione della ginnastica parlamentare. Ed hanno raccolto i frutti di questa ipnotizzazione. Allorquando i torbidi della fame hanno incendiato più della metà dell’Italia, non hanno saputo cogliere il momento... bisognava dimostrare al pubblico ed alle autorità che i socialisti erano un partito dell’ordine!... Non vi furono interruzioni delle comunicazioni telegrafiche e ferroviarie; nessuna esplosione di dinamite o anche solo di polvere, né contro le forze armate, né per creare nel paese delle formidabili barricate. Al contrario, tutti gli infantilismi dei giovani: si rispondeva ai colpi di cannone col lancio di tegole e di mattoni! Si innalzavano barricate con tavoli e sedie».
Ciancabilla, segnalato dalle autorità italiane come «anarchico pericoloso» ed espulso dalla Francia, si trasferisce in Svizzera. Qui fonda a Neuchâtel il foglio L’Agitatore, ben intenzionato ad eccitare la lotta contro la monarchia dei Savoia: «L’ostacolo principale che per il momento bisogna abbattere è la monarchia; questa monarchia che galleggia sul sangue... Il dissidio tra essa e il popolo è ora così profondo quanto non fu mai. Da un lato dell’abisso questa funerea sintesi dei malanni d’Italia, questa accozzaglia di regali banditi della sciabola e del terrore; dall’altro la massa immensa del popolo che soffre, che langue, che muore, che si rivolta e che si rivolterà. Noi dobbiamo dunque acuire questo dissidio. E poiché purtroppo in Italia la massa incosciente che si ribella non può ancora percepire la lotta per un ideale astratto e lontano, perché appena dall’ideale è sfiorata, occorre abituare questa massa a concentrare... il suo spirito di vendetta, contro un nemico vivente, palpabile, reale... cioè il governo monarchico». 
Allorché il 10 settembre dello stesso anno, proprio a Ginevra, l’imperatrice Elisabetta d’Austria cade sotto la lima di Luccheni, Ciancabilla non esita un istante a salutare l’avvenimento dalle colonne del suo giornale: «Ma chi è direttamente responsabile dei mali che travagliano la società? Umberto o Pelloux, Bava Beccaris o l’imperatrice d’Austria, hanno tutti il medesimo grado di responsabilità, poiché tanto essi quanto tutte le altre sanguisughe non sono che il prodotto d’una infinità di cause le une alle altre collegate. È naturale quindi che colui il quale, forse maturo per la rivoluzione ed incapace pertanto ad attendere che la massa intera sia giunta al suo grado di sviluppo rivoluzionario, si senta spinto ad un atto di rivolta e colpisca indifferentemente il primo che capita». A causa di questo suo articolo, le autorità elvetiche lo allontaneranno dal paese. Non potendo far rientro in Italia, perché ricercato dalla polizia che lo sospetta di tramare un attentato contro Bava Beccaris, Ciancabilla è costretto a rifugiarsi a Londra, dove incontrerà ancora il repubblicano Giovan Battista Pirolini, con cui ha combattuto in Grecia agli ordini di Amilcare Cipriani. Pirolini lo definirà un «suicida ambizioso» e rivelerà ad un suo corrispondente che Ciancabilla «voleva da Londra correre a Milano qualche mese fa per vendicarsi sul Bava. Riuscii con altri a trattenerlo. Lo mandarono quindi in America, a Paterson, dove ora si trova a dirigere un giornale del suo partito».
Paterson, per l’appunto, dove la strada dei due anarchici si sarebbe infine incrociata. In questa città di centomila abitanti a poche decine di chilometri da New York c’è una forte presenza di immigrati italiani, un quinto dei quali anarchici. Qui viene stampato il periodico La Questione Sociale, la cui redazione viene affidata a Ciancabilla subito dopo il suo arrivo, verso la fine del 1898. La manterrà per dieci mesi. L’anno successivo, il 1899, è l’anno delle grandi polemiche scoppiate fra gli anarchici attorno alla questione dell’organizzazione. Uno dei principali protagonisti di queste polemiche è appunto Ciancabilla, il cui pensiero è in continua evoluzione. Lui che solo alla fine del 1897 ha lasciato il socialismo parlamentare per quello anarchico, lui che nel 1898 in Francia ha fatto propria la concezione comunista kropotkiniana dell’anarchismo, ora è pronto a radicalizzare ulteriormente le proprie idee. Mentre l’ormai maturo Malatesta è un sostenitore della costituzione di una grande organizzazione capace di raggruppare gli anarchici attorno ad un programma predefinito, il giovane Ciancabilla giungerà alla conclusione che solo l’avvicendarsi di piccoli gruppi possa garantire una libertà di azione a tutti. Mentre il primo considera indispensabile intrecciare alleanze con altre forze sovversive per arrivare alla rivoluzione, il secondo ritiene che simili alleanze con chi la rivoluzione non la vuole affatto non possano che rivelarsi inutili e nocive. Mentre il primo cerca di persuadere le masse della bontà delle proprie intenzioni al fine di farle aderire al suo programma, smussando magari quegli aspetti dell’anarchismo che possano risultare spigolosi, il secondo preferisce eccitarne gli animi all’odio nei confronti dell’autorità al fine di spingerle alla rivolta. In breve tempo il dibattito fra i sostenitori delle due diverse correnti diventerà incandescente, scadendo in toni anche spiacevoli.
L’arrivo a Paterson dello stesso Malatesta, nell’agosto del 1899, farà precipitare la già difficile situazione venutasi a creare con gli altri redattori del giornale. Ciancabilla e i compagni a lui più vicini abbandonano La Questione Sociale per fondare un proprio giornale, L’Aurora, il cui primo numero uscirà il 16 settembre 1899. Due mesi dopo, la sera del 12 novembre, a West Hoboken, durante una conferenza pubblica di Malatesta si verifica un episodio che farà scalpore. Un certo Domenico Pazzaglia fa fuoco contro il celebre anarchico, ferendolo ad una gamba. L’autore del gesto viene atterrato da un pugno sferratogli da un altro anarchico presente, Gaetano Bresci. E, sebbene al momento del fatto Ciancabilla non sia nemmeno presente, molti lo riterranno comunque responsabile dell’accaduto. Per questo motivo, su di lui graverà il rancore di parecchi anarchici.
La prima serie de L’Aurora s’interromperà il 24 maggio 1900, dopo 23 numeri. Solo una settimana prima, il 17 maggio, Gaetano Bresci si è imbarcato sul piroscafo francese Guascogne per fare ritorno in Italia. Un viaggio annunciato da oltre un anno. In tasca ha 200 dollari, una macchina fotografica, ed una pistola calibro 9 a cinque colpi con cui si è esercitato a lungo. 
Gliene basteranno tre per vendicare i morti di Milano.
 
Subito dopo l’assassinio del re, in tutta Italia si scatena la caccia all’anarchico. I giornali evocano complotti — verranno denunciati ed arrestati molti presunti complici, tutti rivelatisi poi estranei ai fatti — e ipotizzano perfino un’estrazione a sorte fatta fra gli anarchici italiani emigrati a Paterson, per stabilire chi di loro dovrà ammazzare Umberto I. Tutte sciocchezze, naturalmente. Gli anarchici non sono soldatini usi ad obbedir tacendo. E un simile atto lo si compie non su mandato del caso, bensì sulla spinta di una decisione irrevocabile presa in piena coscienza. Tuttavia gli inquirenti non hanno dubbi: Bresci non è che il braccio del regicidio. Quanto alla mente, vengono fatti più volte i nomi sia di Malatesta che di Ciancabilla. In fondo, l’attentatore li conosce entrambi. Non ha salvato la vita al primo? Ed il suo nome non figura sul primo numero del giornale del secondo fra i sostenitori finanziari dell’iniziativa? 
Nel corso dei suoi interrogatori Bresci respinge queste illazioni, dichiarando di non condividere le idee di Malatesta e di essersi limitato a sottoscrivere un abbonamento all’Aurora
Al di là della famigerata ottusità poliziesca, incapace di concepire rapporti umani privi di gerarchie, e al di là degli immancabili tentativi di estendere il più possibile le inchieste giudiziarie, appare comunque evidente che i sospetti degli inquirenti si siano concentrati soprattutto su uno dei due. L’atto stesso di Bresci dimostra come le sue simpatie non vadano tanto al flemmatico Malatesta, passato dalla banda del Matese all’inseguimento dei favori popolari, quanto all’incendiario Ciancabilla, pronto a difendere ogni atto anarchico di rivolta individuale. Non è forse già noto alla polizia per la sua manifesta intenzione di uccidere il generale Bava Beccaris? Non reclama da tempo sui suoi giornali la fine violenta dei Savoia? Non è lui che all’indomani del 29 luglio si precipita ad inviare al ministro Saracco un telegramma provocatorio?
L’Aurora riprenderà ad uscire l’8 settembre 1900, quarantun giorni dopo l’eliminazione di Umberto I. In prima pagina, un lungo articolo di Ciancabilla intitolato Cosa ne pensiamo — in cui, oltre a magnificare l’attentato, fustiga la vile presa di distanza da parte dei socialisti anarchici vicini a Malatesta. A differenza di chi implora il Procuratore del Re a fare le dovute distinzioni fra militanti buoni e criminali cattivi, Ciancabilla esprimerà a voce alta la propria corresponsabilità etica con il regicidio. Sarà questo solo il primo degli articoli che l’anarchico di Roma dedicherà al suo compagno di Prato (e che qui abbiamo raccolto tralasciando i molti testi, firmati da altri autori, che L’Aurora ha pubblicato sull’argomento), di cui seguirà con commozione tutto il calvario fino all’epilogo, fino alla macabra messinscena in carcere del suo “suicidio” per impiccagione con un tovagliolo. Ed anche successivamente, dalle pagine della sua nuova rivista La Protesta Umana, Ciancabilla non dimenticherà mai Bresci e continuerà fino alla fine a difenderne la memoria, ad esaltarne il gesto, ad invocarne la vendetta, ad insultarne i detrattori. Per tutti quei tre anni e quattro mesi.
Egli fu il primo a lanciare quel grido — Viva Bresci! — che dopo quel 29 luglio si diffuse in tutta Italia. Non c’è stata regione, non c’è stata città né paese in cui non sia risuonato nelle strade o non sia stato tracciato sui muri. Si dice che nel giro di appena quattro mesi i tribunali avessero pronunciato 2700 sentenze contro chi aveva osato fare in pubblico l’apologia dell’attentatore. Solo pochissimi di quei condannati erano anarchici, a dimostrazione che il regicidio aveva trovato consensi in ogni ambito sociale (contadini, calzolai, camerieri, negozianti, operai, artigiani, autisti, farmacisti... financo preti, soldati e addirittura nobili). 
Viva Bresci! — sono due parole, sono dieci lettere che da oltre un secolo esprimono la rivolta dell’individuo contro il potere.
 
Giuseppe Ciancabilla
Viva Bresci!
pp 100, euro 6
gratis 
 
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[17/7/11]