Miraggi

La voglia lavabile

Mynona

 

 

Tutta l’opera di Mynona è un’esortazione a sottrarsi al magnetismo esercitato dalla polarità dell’universo. Di fronte ai dualismi in cui è suddiviso il mondo delle apparenze, l’individuo deve evitare di prendere partito se non vuole alienare la propria libertà poiché «gli estremi non lottano per eliminarsi, ma per trovare una armonia». Così, attraverso il grimaldello del grottesco, nei suoi racconti Mynona annulla la distanza fra questi estremi considerati solitamene antagonisti, provocando bizzarri incontri che incrinano le certezze del senso comune. Ma non bisogna equivocare: Mynona non intende giustificare un relativismo preludio ad ogni opportunismo, ma difendere a spada tratta l’«io integrale» che solo nel nulla creatore può esercitare la propria sovranità.

Personaggio tanto marginale quanto rappresentativo della boheme berlinese di inizio secolo, Mynona è l’alter-ego letterario di Salomo Friedlaender, il «Charlie Chaplin della filosofia», la cui opera L’Indifferenza creatrice (1917) influenzerà profondamente Dada in Germania.

 

 

Non c’è spettacolo più rallegrante di una lieta, pacifica coppia reale nella sua camera da letto.

Re Essem, che si era appena dedicato con solerzia a generare il proprio erede, si rannicchiò soddisfatto sotto il piumino e si accese un manilla. La regina, invece, si assopì. Gran brava signora. Questo bisognava riconoscerlo. Superfluo precisare che il matrimonio non sarebbe potuto essere più convenzionale di così, celebrato unicamente per motivi dinastici. Il re era tanto brutto che la sua effige sulle monete e sui francobolli era una visione pericolosa per le donne incinte. La regina non era brutta, ma… santa, portata soltanto alla mortificazione della carne, però la devozione l’aiutava a trasfigurare gli aspetti naturali del dovere coniugale. E tuttavia, casta e santa com’era, fece un sogno infernale. Era in mezzo alle vampe dell’inferno, il puzzo di zolfo le mozzava il respiro, soffocava — si svegliò e uno spettacolo orrendo le si parò davanti agli occhi: una mano nera e sanguinante sporgeva tra il fumo e le fiamme. Il suo regale vicino era carbonizzato. Mai fumare sigari a letto! La regina si precipitò fuori urlando e intanto che una mezza dozzina di cameriere si occupava di lei, i pompieri riuscirono a spegnere l’incendio. La bandiera reale fu ammainata a mezz’asta, la reggenza affidata alla bella sovrana, tanto più volentieri in quanto stava per conoscere le gioie della maternità. Dopo nove mesi, infatti, nacque un infante del tutto normale, tranne per una voglia rossonerastra simile all’impronta di una mano. Ma l’aveva sulla natica destra e quindi non si ponevano problemi per la successione al trono. Son cose di cui si dà pena, tutt’al più, qualche balia sollecita. Una schiera di medici tentò tuttavia di eliminare il piccolo neo che deturpava la guancia apocrifa. Niente da fare.

Ma il principino commise poco dopo un errore infinitamente più grave del neo: scomparve senza lasciare traccia, sgusciando dalle fasce morbide come la seta. «Niente mi è risparmiato», gemeva la regina. Eppure la faccenda non sembrerebbe pur così grave se il bambino smarrito ha un segno di riconoscimento come questo: le probabilità di ritrovarlo non sono certamente poche. Però, quando si tratta di principini ereditari, c’è da aspettarsi di tutto: imbrogli, sostituzioni, aspiranti usurpatori. I bebé di tanto conto li dovrebbero fotografare appena nati, effigiare nel marmo, rendere riconoscibili in tutti i modi. Ricordate quella deprecabile gang americana che si era specializzata nei rapimenti di principi ereditari e le difficoltà incontrate per stroncare il redditizio commercio? Perfino nel nostro caso le fatiche di rintracciarlo furono inutili, sebbene al segno di riconoscimento ci avesse già pensato la natura. Falsi allarmi dopo falsi allarmi toglievano la pace ai medici, alle autorità costituite e soprattutto all’infelicissima madre. E per di più i surrogati dell’erede al trono erano tutti di qualità scadentissima!

Perché, dal momento che la notizia si era diffusa i furbi del paese avevano intuito la buona occasione e subito era incominciata la corsa al neonato. Frotte di loschi individui s’introducevano negli ospedali pediatrici, negli asili-nido, negli istituti per l’infanzia. Vegliardi e vegliarde braccavano le gravide, lusingandole con la promessa d’una vita paradisiaca purché accettassero di partorire sotto la loro sorveglianza. Ostetrici non si peritavano di stampare sui culetti dei neonati voglie stupende, tutte in forma d’una mano rossonerastra. Il colmo dei colmi fu commesso dai rapitori d’una donzella simile di sembianze alla regina: la costrinsero ad accoppiarsi con un poveretto che pareva il duplicato del defunto re e poi lo bruciarono vivo accanto a lei, ripetendo tal quale il fattaccio precedente, e a tempo debito sottoposero il risultato del crimine a una commissione appositamente costituita: ma della voglia neppure l’ombra, neanche al microscopio. Poco dopo la polizia dovette ordinare la chiusura d’una fabbrica di voglie dove le si produceva in serie, con stampi di vario tipo. Migliaia di impiegati, in un palazzo di seicentottantuno uffici e con un archivio grande come una casa, si occuparono anni e anni, per dieci ore al giorno e più, della disamina e della verifica dei casi. E lo strano era che dopo tanto tempo, quando lo scomparso doveva essere diventato ormai un pezzo di giovanotto, vi fossero ancora certuni che si ostinavano a spedire nuovi poppanti fasulli. Inaudito, poi, l’episodio della ragazzetta tredicenne, o giù di lì, che asserì d’essere lei il figlio perduto e di aver cambiato sesso nel frattempo. Le risero in faccia, ma lei, impermalita, sollevò la sottana e indicò ai signori della commissione la parte in causa e quando minacciarono di cacciarla in prigone indicò la voglia che corrispondeva perfettamente all’originale. Ah, se almeno non fosse stata lavabile! (La fecero ricoverare subito subito in un istituto gestito dall’assistenza pubblica).

 

Lavabili! Lo furono tutte, negli anni successivi. Nemmeno una voglia che resistesse al bucato, o alla pietra pomice, o all’azione di qualche blando detergente chimico. Passati diciotto anni, quando il povero principe ormai maggiorenne sarebbe dovuto salire al trono e i ministri si erano riuniti sotto la presidenza della sovrana per dichiararne invece la morte presunta, si presentò, tutto solo, un giovane a tal punto simile nell’aspetto alla coppia regale che non c’era da sbagliarsi. Ma siccome la prudenza non è mai troppa, dato che le ultime amanti del defunto monarca avevano seguitato a saltare su anche dopo anni, non appena restavano incinte, e la commissione si era trovata, per colpa loro, alle prese con le più obbrobriose procedure, il professor Ganglhuber si dette un gran daffare col deretano del giovinetto. Glielo fotografò, glielo sfregò, glielo massaggiò, glielo stropicciò con centinaia di sostanze, glielo annaffiò con docce corrosive: la mano rossonerastra stampata sulla natica destra non scompariva! Ganglhuber sudava sangue; con le buone maniere niente da fare.

E a questo punto si videro gli effetti dei lunghi anni di crescente diffidenza: ormai nessuno poteva più ammettere che il nuovo venuto fosse quello giusto. Perfino la regina si era affezionata talmente al suo dolore che il ritrovamento del figlio era per lei una fiaba alla quale non si abbandonava neppure nei sogni. Perfino gli scrivani non si preoccupavano d’altro che di mettere tutto agli atti. Li pagavano bene e non avevano nessun interesse che il principe scomparso ricomparisse. Il pubblico non leggeva più la colonna del giornale riservata ai bollettini di Ganglhuber, o tutt’al più la scorreva per farsi una risata quando riportava i casi più spassosi. Un’unica creatura continuava a trepidare per lui, la nutrice che se l’era visto sparire tutt’a un tratto e che adesso, non appena lo scorse, e soprattutto non appena ebbe scorto la chiappa destra, scoppiò in lacrime e singhiozzò estasiata: «È lui! È sua altezza reale!», e gli fece il più devoto e il più aulico degli inchini. Ma Ganglhuber la riprese aspramente, chiedendole se niente niente vaneggiava, e la regina procurò di tranquilizzarla assicurandole d’essere convinta che il suo fosse un abbaglio in perfetta buona fede.

Ormai si trattava soltanto di smascherare, pro forma, un impostore in più e di punire quelli che lo avevano sobillato. Ganglhuber ricominciò a trattare il deretano con tanta energia che il giovane gridò forte per il dolore. La sovrana, che aveva fretta di concludere la seduta, lo sollecitò a sbrigarsi e il professore, punto nel vivo dal biasimo sottinteso nelle sue parole, si accanì con zelo rabbioso; raschiò la voglia con un rasoio affilatissimo, la pelle si staccò, la ferita cominciò a sanguinare, il giovane cadde svenuto. La regina uscì, indignata che non le avessero risparmiato un simile choc. In attesa che la pelle si riformasse, misero la povera vittima a letto, guardata a vista. Dopo un paio di giorni la ferita si cicatrizzò e la voglia ricomparve, più evidente che mai. Ganglhuber si risolvette allora per un intervento radicale: narcotizzò il malcapitato e, tagliando quasi fino all’osso, eliminò la malaugurata voglia e il resto della natica (che gettò in pasto a un bassotto), fasciò la parte e considerò il caso bell’e concluso. Poco dopo l’erede al trono fu dichiarato ufficialmente morto e tutti riconobbero che la soluzione era la sola ragionevole. Tutti tranne la vecchia nutrice che aveva visto giusto. Perché lo scorticato, condannato per punizione a un anno di galera, era proprio il principe.

 

Il giovanotto, che se fosse salito al trono certo si sarebbe comportato regalmente, diventò anarchico, uccise Ganglhuber, ordì un complotto dei più pericolosi contro sua madre e finì sul patibolo. E la sua storia è un esempio macroscopico e di grande forza deterrente contro la diffidenza esasperata ed elevata quasi a culto.