Contropelo

Barbari

Senza una ragione

 
Oggi i barbari non si accampano più alle porte della Città. Si trovano già al suo interno, essendovi nati. Non esistono più le fredde terre del Nord o le brulle steppe dell’Est da cui fare partire le invasioni. Bisogna prendere atto che i barbari provengono dalle fila degli stessi sudditi imperiali. Come a dire che i barbari sono dappertutto. Per le orecchie abituate all’idioma della polis è facile riconoscerli perché si esprimono balbettando. Ma non bisogna lasciarsi ingannare dal suono incomprensibile della loro voce, non bisogna confondere chi è senza una lingua con chi parla una lingua diversa.
Molti barbari sono infatti privi di un linguaggio riconoscibile, resi analfabeti dalla soppressione della propria coscienza individuale — conseguenza dello sterminio del significato attuato dall’Impero. Se non si sa come dire, è perché non si sa cosa dire; e viceversa. E non si sa cosa e come dire perché tutto è stato banalizzato, ridotto a mero segno, ad apparenza. Considerato una delle maggiori sorgenti della rivolta, fonte irradiante di energia, nel corso degli ultimi decenni il significato è stato eroso da tutta una schiera di funzionari imperiali (ad esempio dalla scuola strutturalista francese tanto cara ai due emissari) che lo hanno frantumato, polverizzato, sbriciolato in ogni ambito del sapere. Le idee che interpretano ed incitano all’azione trasformatrice sono state cancellate e rimpiazzate dalle opinioni che commentano e inchiodano alla contemplazione conservatrice. Laddove prima c’era una giungla piena di insidie perché selvaggia e rigogliosa, è stato fatto il deserto. E cosa dire, cosa fare in mezzo al deserto? Privi di parole con cui esprimere la rabbia per le sofferenze subite, privi di speranze con cui superare l’angoscia emozionale che devasta l’esistenza quotidiana, privi di desideri con cui contrastare la ragione istituzionale, privi di sogni a cui tendere per spazzare via la reiterazione dell’esistente, molti sudditi si imbarbariscono nei gesti. Una volta paralizzata la lingua, sono le mani a fremere per trovare sollievo alla frustrazione. Inibita nel manifestarsi, la pulsione alla gioia di vivere si capovolge nel suo contrario, nell’istinto di morte. La violenza esplode ed essendo senza significato si manifesta in maniera cieca e furiosa, contro tutto e tutti, travolgendo ogni rapporto sociale. Laddove non c’è una guerra civile in corso, ci sono i sassi lanciati dai cavalcavia oppure lo sterminio di parenti, amici o vicini. Non è una rivoluzione, non è nemmeno una rivolta, è una strage generalizzata compiuta da sudditi resi barbari dalle ferite quotidiane inflitte sulla propria pelle da un mondo senza senso perché a senso unico. Questa violenza cupa e disperata infastidisce l’Impero, turbato nella sua presunzione di garantire la pace dei sensi, ma non lo preoccupa. In sé, non fa altro che alimentare e giustificare la richiesta di maggior ordine pubblico. Eppure, per quanto facilmente recuperabile, una volta affiorata in superficie essa mostra tutta l’inquietudine che agita in profondità questa società, tutta la precarietà della presa imperiale sulle vicissitudini del mondo moderno.
E tuttavia esistono anche altri barbari, di natura diversa. Barbari in quanto refrattari alle parole d’ordine, non certo in quanto privi di coscienza. Se il loro linguaggio risulta oscuro, noioso, balbettante è perché non coniuga all’infinito il Verbo imperiale. Sono tutti coloro che rifiutano deliberatamente di seguire l’itinerario istituzionale. Hanno altri sentieri da percorrere, altri mondi da scoprire, altre esistenze da vivere. Alla virtualità — intesa come finzione — della tecnologia che nasce in sterili laboratori, oppongono la virtualità — intesa come possibilità — delle aspirazioni che nascono nei battiti del cuore. Per dare forma e sostanza a queste aspirazioni, per trasformarle da virtuali in reali, devono strappare all’Impero con la forza il tempo e lo spazio necessari alla loro realizzazione. Devono, cioè, riuscire ad arrivare ad una rottura integrale con l’Impero.
Anche questi barbari sono violenti. Ma la loro violenza non è cieca nei confronti di chi colpisce, quanto piuttosto nei confronti della ragione imperiale. Questi barbari non parlano e non capiscono la lingua della polis, né vogliono impararla. Non sanno cosa farsene della struttura sociale dell’Impero, della costituzione americana, degli attuali mezzi di produzione, dei documenti di riconoscimento o del salario sociale a cui tanto tengono i due emissari. Non hanno nulla da chiedere ai funzionari imperiali, non hanno nulla da offrire loro. La politica del compromesso è abortita in partenza, e non per un ridicolo processo ideologico, ma per una totale inadeguatezza a questo mondo. Sanno solo che per realizzare i propri desideri, quali che siano, devono prima togliere di mezzo gli ostacoli che incontrano sul proprio cammino. Non hanno tempo di chiedersi come mai «il capitalismo è miracolosamente ancora vivo e vegeto e la sua accumulazione è più gagliarda che mai», come si attardano comicamente a fare i due emissari, sconcertati che la storia si rifiuti di funzionare assecondando gli oliati meccanismi di una macchina. Il «mistero della longevità del capitale» non riesce ad appassionare questi barbari tanto quanto l’urgenza della sua morte. Per questo sono pronti a mettere a ferro e a fuoco le metropoli — con le loro banche, i loro centri commerciali, la loro urbanistica poliziesca — in qualsiasi momento, individualmente o collettivamente, alla luce del sole o nel buio della notte. Se non hanno un solo motivo per farlo, è perché li hanno tutti.
Contrariamente ai sudditi scontenti che vorrebbero diventare sudditi contenti, a questi barbari non interessa la possibilità di un altro mondo. Preferiscono battersi perché pensano che un mondo altro sia possibile. Sanno che “un altro mondo” sarà come “un altro giorno”, la vuota e noiosa ripetizione di quello che lo ha preceduto. Ma un mondo altro è un mondo sconosciuto tutto da fantasticare, da creare, da esplorare. Essendo nati e cresciuti sotto il giogo imperiale, senza avere mai avuto la possibilità di sperimentare modi radicalmente diversi di vivere, non è possibile immaginare questo mondo altro se non in termini negativi, come un mondo senza denaro, senza legge, senza lavoro, senza tecnologia e senza tutti gli innumerevoli orrori prodotti dalla civiltà capitalista.
Inetti a concepire un mondo senza padroni da servire, i due emissari interpretano questa assenza come mancanza. È questa loro ridicola persuasione che l’Impero sia il destino dell’umanità a far loro dire che «il rifiuto del lavoro e dell’autorità — e in particolare, il rifiuto della servitù volontaria — è l’inizio della liberazione politica [...]. Questo rifiuto è certamente l’inizio della liberazione politica, ma è solo l’inizio. In se stesso, il rifiuto è vuoto [...]. In termini politici, il rifiuto, in quanto tale (del lavoro, dell’autorità, e della servitù volontaria) conduce a una sorta di suicidio sociale. Come dice Spinoza, se ci limitiamo a separare la testa del tiranno dal corpo sociale ci ritroveremo tra le braccia il cadavere mutilato della società». Il tiranno è la testa, la ragione che guida; i sudditi sono i muscoli, la forza che lavora. Più che Spinoza, i due emissari avrebbero dovuto citare i patrizi dell’antica Roma, i quali facevano notare alla plebe in procinto di ribellarsi che se i sudditi insorgono e mettono a morte il tiranno commettono un suicidio, perché non si può vivere senza qualcuno che comanda.
L’eterna menzogna che regge ogni esercizio del potere trova in Hardt e Negri due ferventi seguaci, disponibili a sostenere che il rifiuto dell’autorità è un suicidio e l’anarchismo è una forma di impotenza. In realtà, come è stato fatto notare più volte e da più parti, è la distruzione ad aprire la porta alla creazione, il mero rifiuto non fa altro che rendere fertile il terreno alla nuova affermazione. Contrariamente a quanto pensano i due emissari, il tiranno — ed ogni struttura di potere è tirannica — non è la testa del corpo sociale, bensì il parassita che ne avvelena l’organismo. Ucciderlo è un atto di liberazione. I club rivoluzionari parigini, così come i Consigli operai russi, non hanno risentito della decapitazione del re Luigi XVI, o della caduta dello zar Nicola II. Anzi è stata proprio la liquidazione del potere, cioè il contesto insurrezionale che abbatte antiche abitudini e sprigiona nuove energie, a permettere la loro nascita e diffusione. Ed è stata proprio la reintroduzione del potere, in chiave giacobina o bolscevica, a determinare lo stallo e la rovina del processo di rigenerazione sociale, riportando ciò che è Ignoto a ciò che è Stato.
Chi non parla con me e come me non ha nulla da dire. Chi non agisce con me e come me è malato di impotenza. Chi non vive con me e come me desidera suicidarsi. È questo l’insegnamento che l’Impero semina fra i suoi nemici per bocca dei suoi emissari. Ma i barbari sono sordi a simili puerili moniti, le loro orecchie sono sensibili solo alla voce che li chiama all’assalto dell’Impero, alla tabula rasa dell’esistente. La loro furia incute terrore persino in molti nemici dell’Impero, desiderosi sì di vincerlo ma con le buone maniere. Da bravi civilizzati, costoro condividono il dissenso ma non l’odio; comprendono l’indignazione ma non la rabbia; lanciano slogan di protesta ma non urla di guerra; sono pronti a versare saliva ma non sangue. Anch’essi — sia chiaro — vogliono la fine dell’Impero, però si aspettano che avvenga spontaneamente, come un fenomeno naturale. Spinti dalla certezza che l’Impero è gravemente malato, i suoi più educati nemici si augurano che un collasso liberi al più presto l’umanità dalla sua ingombrante presenza. 
D’altronde nessuno può negare che è assai meno pericoloso ottenere la libertà in seguito alla placida dipartita del padrone, come una sorte di eredità, piuttosto che conquistarla in battaglia. Questa indiscutibile constatazione li porta a sedere sulla riva del fiume, in attesa di veder passare il cadavere del loro nemico trascinato dalla corrente. 
Ben diversa è la natura barbara, che non conosce questa soave pazienza. I barbari infatti sono persuasi che sia vano attendere la morte dell’Impero, la quale oltre tutto potrebbe non essere così imminente come si augurano i suoi civili nemici. Inoltre, tutto lascia supporre che nel momento del suo crollo l’Impero seppellirà tutti, ma proprio tutti, sotto le sue macerie. 
Allora, a che pro aspettare? Non è meglio andare a cercarselo, il nemico, e fare il possibile per sbarazzarsene? Questa barbara determinazione suscita orrore. Inorriditi sono i due emissari, secondo cui l’identificazione del nemico è «il problema fondamentale della filosofia politica» e in quanto tale non può riguardare i barbari, che nella loro rozzezza sono in grado al massimo di «muoversi in tondo tracciando una serie di cerchi paradossali». 
Ma inorriditi sono anche i nemici perbene dell’Impero i quali, abituati a consumare i propri giorni nell’attesa di poter cominciare a vivere, scambiano l’immediatezza barbara per sete di sangue. E come potrebbe essere diversamente? Essi sono del tutto incapaci di comprendere in favore di cosa si battono i barbari, il cui linguaggio è incomprensibile anche per le loro orecchie. Troppo infantili le loro urla, troppo gratuito il loro ardire. Di fronte ai barbari costoro si sentono impotenti come un adulto alle prese con dei bambini scatenati. In effetti per gli antichi Greci il barbaro era assai simile al bambino, mentre in russo i due concetti si esprimono con lo stesso vocabolo (e pensiamo al latino infans, infante, che significa letteralmente non parlante). Ebbene, ciò che più viene rimproverato ai non parlanti, ai balbuzienti, è la mancanza di serietà, di ragionevolezza, di maturità. Per i barbari, come per i bambini, la cui natura non è stata ancora o del tutto addomesticata, la libertà non comincia con l’elaborazione di un programma ideale ma col rumore inconfondibile di cocci rotti. È qui che si alzano le proteste di chi pensa, con Lenin, che l’estremismo non sia che «una malattia infantile». 
Contro la malattia senile della politica, i barbari affermano che è la libertà il bisogno più urgente e più terrificante della natura umana. E la libertà sfrenata dispone di tutti i prodotti del mondo, di tutti gli oggetti da trattare come giocattoli. 
Ma i figli della dea Ragione non ammettono una trasformazione sociale che non si fondi sull’edificazione del Bene Pubblico, si tratti del ritorno ad un passato mitico (l’illusione primitivista) o del compimento di un futuro radioso (l’illusione messianica). Quanto ai barbari, non amano né i sospiri di nostalgia, né le lauree in architettura. Ciò che è non va distrutto in nome di ciò che era o di ciò che sarà, ma per dare finalmente vita a tutto ciò che potrebbe essere, nelle sue smisurate possibilità, qui ed ora. Adesso.
 
 
Per farla finita
 
È inutile cercare di insegnare a parlare a chi non ha una lingua. È inutile spaventarsi di fronte a suoni gutturali e a gesti inconsulti. È inutile proporre mediazioni a chi vuole l’impossibile. È inutile implorare libertà a chi impone schiavitù. Lasciamo la pedagogia ai due emissari, assieme al loro spirito poliziesco e missionario. Che i barbari si scatenino. Che affilino le spade, che brandiscano le asce, che colpiscano senza pietà i propri nemici. Che l’odio prenda il posto della tolleranza, che il furore prenda il posto della rassegnazione, che l’oltraggio prenda il posto del rispetto. Che le orde barbariche vadano all’assalto, autonomamente, nei modi che decideranno, e che dopo il loro passaggio non cresca più un parlamento, un istituto di credito, un supermercato, una caserma, una fabbrica. Di fronte al cemento che prende a schiaffi il cielo e all’inquinamento che lo sporca si può ben dire, con Déjacque, che «Non sono le tenebre questa volta che i Barbari porteranno al mondo, è la luce».
La distruzione dell’Impero difficilmente potrà assumere le consuete forme della rivoluzione sociale, così come ci è dato conoscerle dai libri di storia (la conquista del Palazzo d’Inverno, la reazione popolare a un golpe, lo sciopero generale selvaggio). 
Non ci sono più nobili Idee in grado di smuovere grandi masse proletarie, non ci sono più dolci Utopie pronte ad essere fecondate dai loro amanti, non ci sono più radicali Teorie che aspettano solo di essere messe in pratica. Tutto ciò è stato sommerso, spazzato via dalla melma imperiale. C’è solo il disgusto, la disperazione, la ripugnanza di trascinare la propria esistenza nel sangue sparso dal potere e nel fango sollevato dall’obbedienza. Eppure è in mezzo a questo stesso sangue e al fango che può nascere la volontà — confusa in alcuni, più nitida in altri — di farla finita una volta per sempre con l’Impero ed il suo ordine letale.
 
[tratto da Barbari, edizioni NN, settembre 2002 (qui scaricabile)]