Brulotti

Uccidere

Uccidere è privare qualcuno della propria vita, l’estrema offesa che un essere umano può imporre a uno o a più altri esseri umani.

Posta in questi termini l’uccisione di qualcuno uguale a noi – tutti gli uomini sono uguali – sembrerebbe un fatto raro, e invece non lo è. Non tanto perché la maggior parte di questi omicidi resta sconosciuta, ma perché sono tante le ragioni che rendono normale la morte imposta a qualcuno.

I Paesi cosiddetti civili hanno abolito la pena di morte (non tutti) ma non si preoccupano più di tanto delle morti sul lavoro, degli incidenti stradali, degli omicidi organizzati dalle strutture di potere parallele (mafie, servizi segreti, polizie, ecc.) e non si preoccupano per nulla degli inquinamenti che causano migliaia di morti, basta pensare al modo in cui fino all’ultimo è stato giustificato e pubblicizzato l’uso dell’amianto per farsene un’idea.

Non occorre risalire tanto indietro per arrivare al diverso trattamento morale riservato ai Tedeschi (perdenti) che hanno ucciso milioni di ebrei nei campi di concentramento e agli Americani (vincenti) che hanno ucciso centinaia di migliaia di Giapponesi e di Tedeschi a Hiroshima, Nagasaki e Dresda.

Severino Di Giovanni nell’Argentina degli anni Venti fu fucilato per le sue azioni di attacco contro il capitale e le istituzioni di quel Paese dove era costumanza diffusa fra la borghesia andare, in Patagonia, a caccia di Indios uccidendoli a fucilate come camosci.

In questi ultimi anni, venuti a scadenza i termini di legge per la semilibertà e la libertà definitiva di tanti condannati all’ergastolo per omicidi e altri reati commessi a partire dagli anni Settanta, si sente in giro una geremiade di recriminazioni, da parte delle associazioni di perbenisti ansiosi di vedere carcerazioni sempre più lunghe e più efferate, e “ex qualcosa”, di destra o di sinistra, desiderosi a loro volta di giustificare il credo rieducativo di quel codice in base al quale sono stati condannati e dopo lunghi anni rimessi in libertà.

Quante occasioni perdute di fare silenzio, un silenzio dignitoso al posto di parole pietose.

Perché tanta gente è stata uccisa? Perché tanti sono diventati uccisori? Da quello che oggi emerge da una congerie confusa di dichiarazioni e giustificazioni, per non parlare dei libri e dei film, nessuno sa perché. Un’ondata collettiva di follia generalizzata ha travolto tutti? Ebbene non è stato così, bisogna dirlo chiaramente.

Alcuni hanno ucciso pochi per educare molti, ed è errore tipico di chi in fondo al cuore alberga il medesimo concetto terroristico dell’azione repressiva statale. Destra e sinistra, in tale campo, si danno la mano. L’ordine da questa gente sognato, adesso che la distanza si è fatta consistente e le riflessioni a caldo sono remote, ci appare non molto diverso. Lo Stato agisce anche oggi allo stesso modo, terrorizza i pochi per indurre i molti a restare nei ranghi.

Alcuni hanno ucciso per altri motivi. Hanno ucciso per vendicare un sopruso patito, hanno ucciso per azzerare l’esistenza di singoli responsabili della repressione e dello sfruttamento. In questo caso, senza nessuna pretesa educativa, senza nessuno sforzo immaginativo diretto a sistemare una volta per tutte le cose, uccidere è stata un’azione ben fatta.

Un solo esempio: Luigi Calabresi.

E senza fare troppe sbrodolature, senza perdersi negli insensati gineprai di rivendicazioni e giustificazioni.

 

[Da “SenzaTitolo”, n. 4, autunno 2009]