Autopsia

Blanqui o l'insurrezione di Stato

Con Louis Auguste Blanqui (1805-1881) potremmo al massimo sentirci debitori di uno slogan e di un libro. Il primo è quel Né Dio né Padrone che diede il titolo al giornale da lui fondato nel novembre 1880, pochi mesi prima della sua scomparsa. Il secondo è l’avvincente L’eternità attraverso gli astri, meditazioni sull’esistenza di mondi paralleli e sull’eterno ritorno. Un grido di battaglia e un’opera filosofica di astronomia: tutto qui ciò che merita di essere ricordato di Blanqui. Il resto lo lasciamo volentieri nella pattumiera della storia, dagli altri suoi giornali (come La Patria è in pericolo) alla sua politica avanguardista ed autoritaria.
Non tutti condividono questa considerazione, tant’è che in questo ultimo periodo c’è chi si sta dando un certo da fare per riportare in auge il suo nome che sembrava destinato all’oblio. La sua riscoperta è stata iniziata dai sovversivi di stampo autoritario più vitaminici e meno ingessati, abili annusatori dell’aria del tempo. Di fronte al franare sempre più impetuoso di questa società, di fronte al continuo divampare dei fuochi delle sommosse, si saranno accorti che dietro l’angolo è più probabile (ed anche più desiderabile) che sia in arrivo un’insurrezione piuttosto che una vittoria elettorale dell’estrema sinistra (che si ritroverebbe per altro a dover gestire e risolvere una situazione senza vie d’uscita indolori). Ora, da questo punto di vista, avrebbero corso seriamente il rischio di lasciare campo libero a quei bifolchi di anarchici, i soli a non aver mai abbandonato le prospettive insurrezionali nemmeno negli anni più grigi di pacificazione sociale. I sinistri antenati della critica sociale, i cosiddetti “classici”, non potevano essere di grande aiuto, avendo perduto da tempo il loro smalto. Dopo che per oltre un secolo ne hanno acceso gli altarini, dopo che il loro pensiero ha fatto da faro illuminante in mezzo ad una burrasca rivoluzionaria conclusasi col più vergognoso dei naufragi, i loro nomi non offrono più alcuna sicurezza. Anzi, provocano veri e propri fenomeni allergici di rigetto. Blanqui, il dimenticato Blanqui, il maggior esponente dell’insurrezionalismo autoritario, ha quindi tutte le caratteristiche per essere un riferimento storico alternativo, originale, carismatico, all’altezza del tempo che viene.
Marx, che scaldava le sedie al British Museum per insegnare cosa fosse il plusvalore o la sussunzione del capitale, o Lenin al lavoro nel comitato centrale per preparare il trionfo della burocrazia di partito, diciamoci la verità, non attizzano più di tanto. Ma Blanqui, per Dio, che uomo! Innanzitutto la sua vita — protagonista di molti tentativi insurrezionali, soprannominato l’Enfermé per aver trascorso oltre 33 anni dietro le mura delle prigioni imperiali francesi — suscita un rispetto incondizionato tale da indurre ogni eventuale critica, se non al silenzio, almeno alla cautela. E poi la sua dirompente carica militante, la sua incessante agitazione, il suo fervente attivismo, si accompagnano a un linguaggio semplice ed immediato che esprime un pensiero comunista refrattario al freddo economicismo marxista. Ed è qui la sua attuale forza attrattiva. Con la mancanza di senno del poi, in quest’epoca dove gli occhi si fanno aguzzi solo per trovare alleanze, Blanqui lo possono apprezzare un po’ tutti: gli antiautoritari in fregola d’azione come gli autoritari bisognosi di disciplina. Può rappresentare la sintesi perfetta delle due anime che nel corso della storia hanno composto e diviso il movimento rivoluzionario. E se all’epoca era stato un po’ snobbato dagli eruditi del socialismo scientifico (i quali ne riconoscevano le buone intenzioni ma gli rimproveravano in fondo gli stessi difetti attribuiti a Bakunin), e decisamente contrastato dai nemici di ogni autorità, oggi — in piena eclissi del significato — ha tutte le carte in regola per riprendersi la sua rivincita. 
Perché Blanqui non è solo l’agitatore permanente e focoso (e qui i libertari svengono dall’emozione), ma è anche il dirigente permanente e calcolatore (e qui si sperticano in applausi gli orfani del comunismo di Stato). Unisce il coraggio delle barricate al martirio della prigionia, l’occhio perso a scrutare il firmamento. Non formula grandi piani teorici, elaborazioni sofisticate indigeste allo striminzito stomaco contemporaneo, dà istruzioni per la presa d’armi. Non pretende una profonda riflessione, gli bastano i riflessi pronti. È l’icona rivoluzionaria perfetta da piazzare sul mercato odierno, oggi che non sono graditi i sistemi complessi su cui scervellarsi. Oggi si vogliono emozioni intense da consumare. E Blanqui non annoia con discorsi astratti, è un tipo pratico, lui, diretto, uno di quelli da ascoltare, da cui chiunque ha da imparare, quindi di cui fidarsi. Ecco perché è stato riesumato. Perché, fra le tante incarnazioni della dittatura rivoluzionaria, è il solo che abbia la possibilità di passare per un affascinante avventuriero, invece di rivelarsi fin da subito un meschino uomo di potere. Con un secolo e mezzo di ritardo, Blanqui acchiappa tutti. Avesse un profilo su Facebook, farebbe strage di «Mi piace».
 
Una rivalutazione, la sua, resa allettante anche per via dalla sua tattica d’azione. Di recente avete visto la classe operaia terrorizzare la borghesia oppure avete visto il sorriso aprirsi sul volto di Marchionne? Vi siete accorti di come il proletariato si stia battendo per la propria emancipazione o piuttosto di come indichi le teste calde alla polizia? Avete sentito le strade rimbombare per le masse di insorti diretti contro il Palazzo o invece per le masse di tifosi diretti verso lo stadio? Avete notato gli sfruttati appassionarsi alla critica sociale radicale o all’ultima puntata di un reality-show? Nelle sue memorie Bartolomeo Vanzetti ricorda le ore notturne trascorse sui libri, strappate con determinazione al sonno ristoratore dalle fatiche lavorative. Era un operaio, ma il suo tempo libero lo dedicava allo studio: per capire, per sapere, per non restare materia prima intrappolata negli ingranaggi del capitale (o nella dialettica di qualche intellettuale). Oggi le occhiaie dei lavoratori hanno ben altra origine. Chi vuole prendere parte alla guerra sociale in corso deve tenere conto perciò di questa ovvietà: le masse se ne infischiano della rivoluzione.
Ma questo non è più un problema, davvero, e lo sapete perché? Perché Blanqui se ne infischiava delle masse. Non ne aveva bisogno, gli bastava una elite lucida, capace, ardita, pronta a sferrare un colpo ben calibrato al momento opportuno. Le masse, come d’abitudine, si sarebbero adeguate al fatto compiuto. Insomma, anche nel bel mezzo dell’odierna alienazione capitalista, c’è chi ci ridona la speranza. Sono superati i leninisti, i quali non si rendono conto che non serve più costruire il grande partito in grado di guidare gli sfruttati. Sono superati anche gli anarchici, talmente stupidi da non accorgersi che non c’è più una coscienza da diffondere fra gli sfruttati onde evitare che finiscano in mano ai partiti. Quello che serve è quello che ci può essere, ovvero un pugno di sovversivi cospiratori in grado di elaborare ed applicare la corretta strategia. Un’incursione di mano e la questione sociale è risolta! Bisogna ammetterlo — Blanqui è l’uomo giusto riscoperto al momento giusto da persone che non possono essere altro che giuste.
Talmente giuste da guardarsi bene dal prendere in considerazione il pensiero di Blanqui nella sua sostanza, detestabile sotto molti aspetti. E lo sanno. Ne sono così consapevoli i suoi amici immaginari da limitarsi a decantarne la potenza, lo stile, il sentimento, la determinazione (tutte qualità ammirevoli, senz’altro, ma che non ci dicono granché sul conto di chi le possiede: anche Napoleone, Mussolini o Bin Laden avrebbero potuto vantarle). Ma i suoi amici reali, come il comunardo Casimir Bouis, per altro suo editore, non avevano dubbi in che cosa consistesse il prestigio di Blanqui: «egli è l’uomo di Stato più completo posseduto dalla rivoluzione». Già, la potenza blanquista, lo stile blanquista, il sentimento blanquista, la determinazione blanquista — tutte cose messe al servizio di un progetto politico ben preciso: la conquista del potere. E questo nemmeno il suo sorprendente libro di astronomia, nemmeno il suo slogan più azzeccato, riusciranno mai a farcelo dimenticare.
 
Chissà perché, volendo tessere le lodi di un cospiratore del passato, barricadero, perseguitato, influente sul movimento, a tanta brava gente non è venuto in mente il nome di Bakunin? Perché Bakunin è ricordato come il demone della rivolta, è sinonimo di libertà assoluta, e Blanqui è piuttosto sinonimo di dittatura. Bakunin auspicava «l’anarchia», Blanqui annunciava «l’anarchia regolare» (non è adorabile questo aggettivo?). Bakunin invocava «lo scatenamento delle cattive passioni», Blanqui prescriveva che «Nessun movimento militare deve avere luogo prima dell’ordine del comandante in capo, le barricate saranno innalzate solo nei luoghi da lui indicati» (l’autoelettosi comandante in capo, ça va sans dire, era ovviamente lui). Bakunin cercava fra i cospiratori qualcuno «pienamente convinto che l’avvento della libertà è incompatibile con l’esistenza degli Stati. Egli perciò deve volere la distruzione di tutti gli Stati insieme a quella di tutte le istituzioni religiose, politiche e sociali, quali: le Chiese ufficiali, gli eserciti permanenti, i ministeri, le università, le banche, i monopoli aristocratici e borghesi. Ciò al fine di permettere che sulle rovine di tutto questo possa finalmente sorgere una società libera, che si organizzi non più come oggi dall’alto in basso e dal centro alla periferia per mezzo di unità e di concentrazione forzata, bensì partendo dal libero individuo, dalla libera associazione e dalla comune autonoma, dal basso in alto e dalla periferia al centro, mediante la libera federazione». Blanqui cercava qualcuno che alla domanda «Subito dopo la rivoluzione, potrebbe il popolo governarsi da sé?», rispondesse «Poiché lo Stato sociale è corrotto, per passare a uno Stato sano sono necessari rimedi eroici: il popolo avrà bisogno per un certo periodo di tempo di un potere rivoluzionario»; e che magari mettesse in atto le sue disposizioni immediate quali «Sostituzione di un monopolio [di Stato] al posto di qualsiasi padrone espulso... Riunione nel demanio dello Stato di tutti i beni mobili e immobili delle chiese, comunità e congregazioni dei due sessi, come dei loro prestanome... Riorganizzazione del personale della burocrazia... Sostituzione di tutti i contributi diretti o indiretti con un’imposta diretta, progressiva, sulle successioni e sul reddito... Governo: dittatura parigina».
Se nel corso del XIX secolo Bakunin e Blanqui non sono stati solo due rivoluzionari come molti altri, se il loro nome ha acquisito tanta fama, è perché sono stati l’incarnazione di due idee diverse e contrapposte, perché hanno rappresentato di fronte al mondo intero i due possibili volti dell’insurrezione: quella anarchica contro lo Stato e quella autoritaria a favore di un nuovo Stato (prima repubblicano, poi socialista, infine comunista). 
Sentirsi vicini all’uno o all’altro ancora oggi costituisce di per sé una scelta di campo inequivocabile.
Per Blanqui lo Stato rappresentava lo strumento propulsivo della trasformazione sociale, giacché «il popolo non può uscire dal servaggio che attraverso l’impulso della grande società dello Stato e ci vuole un bel coraggio per sostenere il contrario. Lo Stato infatti non ha altra missione legittima». Nel criticare le idee proudhoniane, egli sosteneva che qualsiasi teoria che pretenda di emancipare il proletariato senza fare ricorso all’autorità dello Stato gli sembrava una chimera; peggio, si trattava «forse» di un tradimento. Non che fosse così ingenuo da farsi illusioni. Semplicemente era persuaso che «benché ogni potere sia per sua natura oppressivo», cercare di farne a meno o addirittura di opporvisi equivaleva a «convincere i proletari che sarebbe facile marciare legati mani e piedi». 
E chi cercasse di contrabbandare la rivalutazione dell’Enfermé come un interessamento alla pratica dell’insurrezione, necessità tecnica esente da ogni comunanza di prospettive, costui mentirebbe sapendo bene di mentire (ad eccezione naturalmente dei babbei libertari su cui non vale la pena spender parola). Perché Blanqui cercava sì un accordo «sul punto capitale, voglio dire sui mezzi pratici, che, in definitiva, sono tutta la rivoluzione», ma egli stesso non nascondeva il legame che unisce l’azione al pensiero: «Ma i mezzi pratici si deducono dai principi e dipendono pure dal giudizio degli uomini e delle cose». Uno dei suoi testi più celebrati, quelle Istruzioni per una presa d’armi che dopo i situazionisti continuano ad affascinare tanti giovani intellettuali aspiranti generali di una nuova armata rossa, non è solo un manuale ad uso degli insorti. Non a caso già nel 1931 la rivista Critique Sociale l’aveva pubblicato, non tanto perché attratta dal suo «lato strettamente “militare” anacronistico», quanto per sottolineare «il valore di questo importante contributo alla critica dei sollevamenti anarchici». Infatti quelle Istruzioni sono una continua apologia della necessità di un’autorità capace di porre fine ad una libertà considerata controproducente. Sono l’accorato grido di un uomo dell’ordine alla vista di tanto disordine — «piccole bande corrono qua e là, disarmano i corpi di guardia, prendendo polvere e armi agli archibugieri. Tutto viene fatto senza accordi né direzione, secondo la fantasia individuale». Sono un atto d’accusa contro «il difetto della tattica popolare, causa certa dei disastri. Nessun comando generale, quindi nessuna direzione... I soldati fanno soltanto di testa propria».
 
Insomma, se l’insurrezione esce sconfitta nonostante il coraggio e l’entusiasmo di chi vi partecipa è perché «manca l’organizzazione. Senza organizzazione, nessuna possibilità di successo». Il che sarà anche vero, ma come si ottiene questa organizzazione, questo coordinamento, questo accordo fra gli insorti? Attraverso la diffusione orizzontale, preventiva ed il più estesa possibile, di una consapevolezza, di un'attenzione, di un'intelligenza verso le necessità del momento (ipotesi libertaria), oppure attraverso l’istituzione verticale di un comando unico che pretende obbedienza da tutti, quei tutti tenuti fino a quel momento nell’ignoranza (ipotesi autoritaria)? Blanqui ovviamente ha le sue istruzioni pratiche da dare in proposito: «Un’organizzazione militare, soprattutto quando bisogna improvvisarla sul campo di battaglia, non è affare da poco per il nostro partito. Suppone un comando in capo e, fino a un certo punto, la serie abituale di ufficiali di ogni grado». Alla scopo di farla finita «con queste sommosse tumultuose di diecimila uomini isolati, che agiscono a caso, in disordine, senza nessun pensiero unitario, ciascuno nel suo angolo e secondo la propria fantasia», Blanqui non si stanca di fornire la sua ricetta: «Bisogna ripeterlo ancora: la condizione sine qua non della vittoria, è l’organizzazione, l’insieme, l’ordine e la disciplina. È difficile che le truppe resistano a lungo ad una insurrezione organizzata che agisce con tutto l’apparato di una forza governativa». Ecco qual è la pratica blanquista dell’insurrezione: un’organizzazione spietata con il nemico ma che sappia imporre al suo interno ordine e disciplina, su modello dell’apparato di una forza governativa.
A noi questo tanfo da caserma provoca solo orrore e disprezzo. Anche se in cima vi dovesse sventolare una bandiera rossa o rossonera, sarebbe sempre un luogo di costrizione e di abbrutimento. L’insurrezione che anziché svilupparsi in libertà a briglie sciolte si mettesse sull’attenti dinanzi ad una autorità sarebbe persa in partenza, sarebbe la semplice anticamera ad un colpo di Stato. Per fortuna, contro questa lugubre possibilità, si può sempre fare affidamento sull’inebriante piacere della rivolta che, una volta esplosa, è capace di mandare a monte tutti i calcoli di questi strateghi d’accatto. 
Maurice Dommanget, che a Blanqui ha dedicato una vita intera di devozione, riporta il clima che regnava a Parigi durante il tentativo insurrezionale del 12 maggio 1839: «Blanqui cercava di dare ordini, di fermare le diserzioni che cominciavano, di “voler organizzare la folla”, compito difficile, quasi nessuno lo conosceva. Tutti gridavano. Tutti volevano comandare. Nessuno obbedire. Qui avvenne un litigio abbastanza vivo e sintomatico tra Barbès e Blanqui che nessuno fin’ora aveva segnalato. Barbès accusò Blanqui di aver lasciato partire tutti, Blanqui accusò Barbès di aver con la sua lentezza scoraggiato tutti e causato la partenza dei pusillanimi e dei traditori». Quando scoppia l’insurrezione, quando la normalità all’improvviso cessa di frenare le possibilità umane, quando tutti vogliono comandare perché nessuno vuole più obbedire, i sedicenti capi perdono ogni autorevolezza, si affannano inutilmente per riportare ordine, arrivano a litigare fra di loro. Il disordine delle passioni è stato e sarà sempre il migliore e più efficace antidoto contro l’ordine della politica.
 
Forse il modo migliore per cogliere l’abisso che separa la concezione autoritaria dell’azione insurrezionale da quella antiautoritaria è di metterle a confronto, nello stesso periodo e contesto storico. Nulla è più istruttivo a questo proposito di una comparazione tra Blanqui e Joseph Déjacque, l’anarchico francese proscritto dopo aver preso parte alle giornate del 1848. Qual è il modello organizzativo propugnato da Blanqui? Una struttura piramidale, rigidamente gerarchica, come ad esempio la sua Società delle Stagioni che ha preceduto il tentativo insurrezionale del maggio 1839: il suo primo elemento era la settimana, composta da sei membri e soggetta a una domenica; quattro settimane costituivano un mese, agli ordini di un luglio; tre mesi formavano una stagione, capitanati da una primavera; quattro stagioni costituivano un anno, comandato da un agente rivoluzionario; e questi agenti rivoluzionari costituivano assieme un comitato esecutivo, segreto, sconosciuto agli altri affiliati, il cui generalissimo non poteva che essere il solo Blanqui. Nel momento cruciale, quando infine fu decretata l’insurrezione, il comitato della Società delle Stagioni diffuse un appello al popolo in cui gli comunicava che: «Il governo provvisorio ha scelto dei capi militari per guidare il combattimento; questi capi vengono dalle vostre file, seguiteli! Vi condurranno alla vittoria. Sono nominati: Auguste Blanqui, comandante in capo...». Che le esperienze successive non gli abbiano fatto cambiare idea lo dimostrano, oltre alla già citata pubblicazione Istruzioni per una presa d’armi risalente al 1868, la sua Società repubblicana centrale del 1848 così come la Falange e i suoi gruppi clandestini di lotta del 1870. Per tutta la vita Blanqui non smise mai di complottare contro il governo in carica, ma sempre in modo militarista, gerarchico e accentratore, sempre allo scopo di istituire un comitato di salute pubblica al vertice dello Stato.
Déjacque, all’opposto, nelle note alla sua Questione rivoluzionaria (1854) evocava la possibilità e l’urgenza di passare all’attacco attraverso società segrete sollecitando la creazione di piccoli gruppi autonomi: «Che ogni rivoluzionario scelga, tra quelli su cui pensa di poter contare assolutamente, uno o due altri proletari come lui. E che in gruppi di tre o quattro, senza legame fra di loro e funzionando isolatamente, in modo che la scoperta di uno dei gruppi non conduca all’arresto di tutti gli altri, agiscano con uno scopo comune: la distruzione della vecchia società». Allo stesso modo, dalle pagine del suo giornale Le Libertaire (1858), ricordava come grazie all’incontro fra sovversivi e classi pericolose «La guerra sociale assume proporzioni quotidiane e universali... Ci completiamo, noi plebe delle officine, con un nuovo elemento, la plebe delle galere... Ciascuno di noi potrà continuare a ribellarsi a seconda delle proprie attitudini». Laddove Blanqui “invitava” il popolo a restare massa di manovra, inquadrata, disciplinata ed obbediente agli ordini dei suoi autoproclamatisi capi, Déjacque si rivolgeva ad ogni singolo proletario per spronarlo all’azione liberatrice, in base alle proprie capacità ed attitudini ed assieme ai complici più affini. Non c’è da meravigliarsi che lo stesso Déjacque abbia marcato a fuoco le aspirazioni dittatoriali di Blanqui: «L’autorità governativa, la dittatura, che si chiami impero o repubblica, trono o poltrona, salvatore dell’ordine o comitato di salute pubblica; che esista oggi sotto il nome di Bonaparte o domani sotto il nome di Blanqui; che esca da Ham o da Belle-Ile; che abbia come insegna un’aquila o un leone impagliato... la dittatura non è che lo stupro della libertà ad opera della virilità corrotta, ad opera dei sifilitici».
Anche qui, sentirsi vicini all’uno o all’altro non è indifferente e costituisce una scelta di campo inequivocabile.
 
C’è un altro aspetto di Blanqui che a qualche attento occhio rapace dev’essere sembrato meritevole di essere rispolverato — il suo opportunismo. Ostentando un certo disinteresse per le questioni teoriche ed un forte attaccamento ai soli problemi materiali dell’insurrezione, Blanqui è un pioniere di una tendenza oggi assai di moda negli ambienti sovversivi: il tatticismo (ricorso spregiudicato a manovre o espedienti per ottenere da altri quanto si desidera) in nome della tattica (tecnica d’impiego e di manovra dei mezzi militari). I suoi studiosi sono soliti usare il termine eclettismo per descrivere il suo abile e interessato volteggiare fra diverse posizioni. La sua concezione dell’insurrezione come risultato di una mossa strategica, e non come fatto sociale, lo portava alla conclusione che il fine giustifichi tutti i mezzi. Per lui non contava il modo, ma il risultato, ovvero l’effettiva conquista del potere politico. Ecco perché, nonostante la sua inclinazione per le cospirazioni, nel 1848 cercò di dirigere un movimento democratico favorevole alla partecipazione elettorale. Come ebbe a ricordare il suo compagno Edouard Vaillant, già suo portavoce al congresso della Prima Internazionale a Londra nel settembre 1871, «L’opera della rivoluzione era la distruzione degli ostacoli che ostruivano la via: suo primo dovere era “disarmare la borghesia, armare il proletariato”, armare il proletariato di tutte le forze del potere politico conquistato, preso al nemico. Allo scopo, i rivoluzionari dovevano andare all’assalto del potere, marciarvi contro per tutte le strade: agitazione, azione, parlamento ecc... Essi non si rinchiudono nella “prigione modello” di un dogmatismo qualsiasi. Non hanno alcun pregiudizio».
Questa mancanza di “pregiudizi” — che all’epoca, al di là di ogni considerazione di coerenza etica, erano semmai intuizioni dettate da un minimo di intelligenza — aveva portato Blanqui a risultati talvolta imbarazzanti. Nel 1879, pochi anni dopo aver tuonato che «bisogna finirla con il disastroso prestigio delle assemblee deliberanti», tentò senza riuscirvi di farsi eleggere deputato a Lione. Per realizzare questo lodevole progetto insurrezionale, chiese aiuto al suo amico Georges Clémenceau, allora deputato repubblicano radicale, a cui scriveva: «diventate alla Camera l’uomo dell’avvenire, il capo della rivoluzione. Essa non ha saputo né potuto trovarne uno dal 1830. Il caso gliene dà uno, non toglieteglielo». Ora, come è noto, Clémenceau farà effettivamente una grande carriera, diventando prima senatore, poi ministro degli Interni e per due volte presidente del Consiglio. Con la sua sanguinosa repressione di scioperi e rivolte culminata in diversi eccidi proletari, con la sua spietata caccia ai sovversivi di ogni colore e sfumatura, per non parlare del suo interventismo durante la prima guerra mondiale, si conquisterà il soprannome di «primo sbirro di Francia». Non si può dire che Blanqui sia stato molto lungimirante, avendo chiesto di diventare capo della rivoluzione proprio al futuro capo della reazione! Ma in fondo, non è strano. Aveva riconosciuto in Clémenceau la stoffa del leader politico, del condottiero. Non riusciva a comprendere che il potere è la tomba della rivoluzione.
Ecco perché non abbiamo motivi di rendere omaggio al cadavere di questo aspirante dittatore. Al di là forse di quello slogan e di quel libro, la sua memoria ci rimane nauseante. Nauseante come la sua potenza da Stato maggiore, il suo stile militare, il suo spirito da caserma, la sua determinazione in mimetica («I suoi amici erano convinti che la personalità in lui dominante fosse quella di un generale», scriveva il buon Dommanget). Che i suoi ammiratori, vecchi e nuovi capibastone del partito dell’insurrezione di Stato vadano pure a rimestare nella sua tomba, a respirarne con emozione i miasmi. Con i sommovimenti tellurici oggi in corso, chissà che non rimangano seppelliti assieme al loro Maestro — l’eternità attraverso il fango.
 
[3/12/2011]