Macchianera

T.A.Z. Zone temporaneamente autonome

T.A.Z. Zone temporaneamente autonome

Hakim Bey

Shake Edizioni, Milano 1993

 

Quando si iniziano a leggere gli scritti cyberpunk si rimane ben presto tramortiti. Abituati come siamo ad una scrittura che ha lo scopo di rappresentare idee, analisi, teorie e concetti, la scrittura cyberpunk è un pugno nello stomaco. Un'ondata di immagini, citazioni, riferimenti ci viene sparata addosso ad un ritmo vertiginoso, lasciandoci quasi inebetiti. È un po' quel che accade dopo aver visto un film con numerosi effetti speciali. A questo proposito vale la pena ricordare che Harrison Ford, in una sua intervista, ha dichiarato di considerare "Blade Runner" (film culto dei cyberpunk) uno dei film più brutti che abbia interpretato, quello che gli ha lasciato il ricordo peggiore, per essersi sentito superfluo, sminuito nel suo mestiere di attore, utile al regista più che altro come contorno a scenari fantascientifici.

La scrittura cyberpunk è altamente pirotecnica perché ha lo scopo di annichilire il lettore, di sommergerlo con immagini incredibili in modo da non permettergli di cogliere il significato di ciò che sta leggendo. Assordati da questo «muro del suono», non ci si sofferma sul significato di ciò che si legge, ma si rimane esterrefatti. Di fronte a questa massa indistinta di nomi, riferimenti, dati, sigle che si susseguono freneticamente, il lettore rimane stordito. Ciò che gli resta non è una idea su cui poter formulare un giudizio, ma una sensazione strana e indefinibile che può solo subire. Non riuscendo ad interpretare ciò che legge, sovente ammaliato dalla confidenza che il cyberpunk mostra di avere con la cultura in generale e con le nuove tecnologie in particolare, giunge alla conclusione di trovarsi di fronte a qualcosa di enorme, di molto intelligente, evidentemente troppo intelligente per lui dal momento che non riesce a capirlo, laddove in realtà non c'è nulla da capire.

Prendiamo il libro di Hakim Bey T.A.Z., Zone temporaneamente autonome, edito un anno fa dalle Shake Edizioni. Una delle cose che salta immediatamente agli occhi è la disinvoltura con cui Hakim Bey riesce a mettere insieme nello spazio di poche pagine il più disparato e assurdo elenco di intellettuali, artisti, rivoluzionari, filosofi, personaggi. Parlando ad esempio dell'essenza della festa, Bey riesce a scomodare in appena quattro righe "l'unione degli egoisti" di Stirner, il "mutuo appoggio" di Kropotkin e "l'economia dell'eccesso" di Bataille. Versatilità? Cultura enciclopedica? Nient'affatto. Semplicemente Bey ha una mentalità flessibile, in perfetta sintonia con le attuali esigenze del capitalismo, ben intenzionato a diffondere modelli che siano fluidi, morbidi, democratici, capaci cioè di adattarsi a qualsiasi situazione e per questo amorfi, privi di contenuto, che vengano facilmente accettati da chi è interessato solo a trovare una nicchia dentro cui sopravvivere (gli interstizi, le T.A.Z. di cui parlano i cyberpunk), magari lavorando il meno possibile, comunque accettando tutte le regole del sistema e disprezzando ogni desiderio, ogni sogno che non siano quelli ammessi e concessi dal capitale. Il Cyberpunk, flessibile e democratico, è l'ideologia che rispecchia alla perfezione questi individui mediocri, modesti sotto ogni aspetto che non sia la presunzione, incapaci di sognare come di lottare, disposti per un pezzo di brioche ad approfittare di qualsiasi cosa, a prostituirsi alla prima occasione. Hakim Bey nel suo libro non riesce a negare questo aspetto, limitandosi a registrarlo e a dormirci sopra: «In ogni caso le risposte a queste domande sono così complesse che la T.A.Z. tende a ignorarle del tutto e semplicemente prende quello che può usare».

Ecco perché per il cyberpunk è essenziale la convinzione che, con la fine delle grandi ideologie, ogni idea, ogni evento e ogni valore possano venir svuotati del loro significato, del loro contenuto, per essere adoperati come simulacri. In parole povere i cyberpunk sfruttano tutto, giacché per loro esiste solo il dato, l'unità di informazione che accomuna ogni cosa. Ogni cosa è tale in quanto dato in un network informatico che è possibile manipolare e che a sua volta manipola.

Ciò spiega parecchie cose. Spiega ad esempio la superficialità e la sostanziale ignoranza di Hakim Bey. Ma soprattutto lo rende inattaccabile, difficile da criticare, perché dal momento che non ha idee, ideali, desideri, ma solo dati da manipolare a proprio piacimento, quale critica è possibile fargli? Servirebbe a qualcosa fargli notare l'incongruenza del suo reiterato richiamo al surrealismo, considerata la decisa ostilità dei surrealisti nei confronti della tecnologia? E che il "Situazionismo" di cui ama scrivere era in realtà particolarmente avversato dai situazionisti, in quanto ideologia recuperatrice delle loro idee? E si farà una ragione del fatto che il luddismo fu solo il sabotaggio delle macchine e non anche la loro conquista (differenza non irrilevante e su cui si basarono le critiche di quello stizzoso tecnocrate di Marx)?

Anche la rivoluzione, intesa come progetto, storia e movimento, non sfugge a questa manipolazione, anche essa non è che un insieme di dati come tanti altri. Per chi sente di vivere in un mondo che non gli appartiene, in un mondo in cui i suoi desideri, la soddisfazione dei suoi bisogni, i suoi sogni non trovano posto se non sotto forma di merci, la rivoluzione rappresenta l'unica possibilità di vita, la tabula rasa capace di rimettere tutto in discussione. Per chi non sopporta questa vita, non c'è che la rivolta capace di soddisfare la sua sete di libertà. Nel suo libro, Hakim Bey dedica uno spazio speciale al problema della rivoluzione e all'anarchismo, essendo egli stesso un collaboratore della stampa anarchica americana, a differenza dei cyberpunk italiani che non hanno praticamente alcun rapporto con il movimento anarchico. Chissà come mai non sono state delle edizioni anarchiche a pubblicare il suo libro qui in Italia. Magari i suoi editori spiegheranno che il movimento anarchico italiano è troppo retrogrado ed ancorato a vecchi schemi per poter apprezzarne l'opera, ma per noi la considerazione resta un'altra.

Hakim Bey è un perfetto rappresentante della cultura americana radical, di quella cultura fatta da un riformismo socialista e pacifista che ci ha propinato personaggi come Allen Ginsberg, Julian Beck, Noam Chomsky e molti altri, tutti uniti dal medesimo interesse per l'anarchismo e dalla sua contemporanea totale incomprensione. Il suo problema è quello di tutti gli artisti e gli intellettuali con pruriti radicali. A costoro non interessa la rivoluzione in quanto tale, ma la sua immagine, il suo simulacro. Non hanno simpatia per il potere che li mantiene, ma ne hanno ancor meno per la rivoluzione che farebbe perdere loro quei privilegi che con tanta fatica hanno ottenuto. Il loro problema diventa allora quello di criticare il potere, però non troppo, di sostenere la rivolta, ma non fino in fondo.

Il movimento rivoluzionario è sempre stato infestato da questi intellettuali ed artisti che vi hanno bazzicato per trarvi ispirazione, come un poeta del secolo scorso guardava un tramonto per scriverci sopra un sonetto. Il loro interesse dunque non è dato dalla lotta rivoluzionaria in sé, ma dalla capacità che questa lotta può avere di fornire loro del materiale su cui lavorare e da cui trarre profitto. L'intellettuale vive sull'idea di una rivoluzione, come l'artista vive sulla sua immagine; idee e immagini che poi si affrettano a mettere in commercio. Ma se la rappresentazione di una rivoluzione li attrae tanto, la rivoluzione – quella autentica – incute loro un terrore senza fine. Hakim Bey è il classico tipo che ai primi sussulti di una vera insurrezione, se la darebbe a gambe rifugiandosi su una montagna a meditare. Questo perché una rivoluzione, di cui l'insurrezione è il preambolo, oltre ad avere il disdicevole difetto di essere violenta, metterebbe fine alla sua carriera di artista. E di questo ne è perfettamente consapevole. Perché mai altrimenti spingerebbe tanto verso la T.A.Z.? Perché la ritiene raggiungibile «senza necessariamente portare alla violenza e al martirio» in quanto «è come una sommossa che non si scontri direttamente con lo Stato»; in altre parole, la T.A.Z.. è una insurrezione che volontariamente non cerca di trasformarsi in rivoluzione, è una «festa» che dura solo il tempo che il potere gli concederà per poi dissolversi alle prime avvisaglie di repressione. Hakim Bey è l'accorto pompiere che prudentemente intende limitare una eventuale insurrezione pur di non correre grossi rischi. La T.A.Z. è insomma l'ideale per chi, dopo aver cacciato la testa sotto la sabbia come uno struzzo, ne approfitta per decantare la bellezza dell'Underground. Non è difficile scorgere dietro il concetto della zona temporaneamente autonoma, l'ennesima rimasticatura dell'isola felice, del limbo dentro cui rinchiudersi, da sempre chiodo fisso di tutti i radical-chic americani, e non solo americani. Come al solito, se il problema non è quello di come fare la rivoluzione, diventa quello di come evitarla.

E dopo averci illuminato sul perché non si debba fare una rivoluzione, Hakim Bey ci dice anche come fare per evitarla. Bisogna abbandonare i vecchi metodi ormai stantii e praticare il "Terrorismo Poetico", giacché «tagliare le teste non ci fa guadagnare nulla, aumenta solo il potere della bestia, finché non ci ingoia. Prima bisogna assassinare l'Idea – far saltare il monumento dentro di noi e allora forse... l'equilibrio di forze cambierà. Quando l'ultimo sbirro nelle nostre teste sarà abbattuto a pistolettate dall'ultimo desiderio irrealizzato – forse anche il paesaggio intorno a noi inizierà a cambiare... Il T.P. propone questo sabotaggio di archetipi come l'unica tattica insurrezionale pratica per il presente». Come a dire che la sola sovversione possibile, la sola insurrezione possibile, è quella che avviene nella finzione, nella simulazione, dentro di noi, a livello di immagini, di "archetipi". Una sovversione facile, comoda, che non sporca, non fa male, non fa correre grossi rischi, non rende difficile la vita con domande troppo complesse e che «forse» è anche capace di modificare le cose. Ma senza troppe pretese.

Dietro al "Terrorismo Poetico" che si esprime tramite azioni quali entrare in una banca e cacare sul pavimento, oppure fare riti di magia nera contro le istituzioni, c'è il solito eterno trucco impiegato da tutti quelli che vogliono far colpo facendosi passare per "provocatori radicali" e nel contempo salvarsi il culo. Il metodo, semplice ed infallibile, utilizzato da sciacalli di ogni risma, è lo stesso che usa Hakim Bey nel suo patetico libro. Criticare l'inefficacia dei tradizionali metodi di lotta per poi sostenere poniamo l'uso della magia nera! Ecco come, sollevando un problema reale e dandogli una soluzione spettacolare quanto futile, si riesce a banalizzare un'intera questione, svuotandola di significato. Così una banca, con o senza stronzo sul pavimento, rimane una banca in funzione nella sua opera di sfruttamento, almeno fino al momento in cui salterà in aria. Ma questa, per Bey, è una «semplice fantasia di vendetta della sinistra – sadismo rovesciato da due soldi». Non poteva mancare in lui il sacro orrore per la violenza, lo stesso provato da tutti i suoi predecessori, da Ginsberg (che di fronte ai manganelli degli sbirri intonava l'OM) al Living Theatre (che dichiarava senza neppure un briciolo di imbarazzo che «la nostra santità li fulminerà»).

Inutile dire che qui in Italia questo libro ha riscosso un discreto successo in tutti gli ambienti frequentati da rifluiti, riciclati e recuperatori. In quanto cultura capace di promuovere il dominio attraverso una sua spettacolare negazione retorica, il Cyberpunk non poteva non interessare tutti coloro che, stufi delle magre soddisfazioni elargite dall'azione rivoluzionaria, hanno preferito battere altre strade, più consone alle proprie aspirazioni di prestigio e di carriera e che oggi, dalle pagine delle loro riviste patinate, applaudono all'opera di Hakim Bey di cui giustamente riconoscono il grande merito: quello di servire il potere.

 

[Da "Anarchismo", n. 73, 1994]