Brecce

Gli Arrabbiati nella rivoluzione francese

Claude Guillon
 
L’azione degli Arrabbiati è abbastanza presto oggetto di studio e di polemica degli storici socialisti. La questione di sapere se essi prefigurino o no il socialismo e il comunismo moderni viene liquidata a seconda delle simpatie degli autori. «Né Jacques Roux né Varlet si trovavano sul cammino del comunismo, afferma Jaurès: non avevano l’apertura mentale di un Babeuf. E aggiungeva: se la loro dottrina ha preparato il comunismo, è stato per la sua contraddizione e per la sua impotenza». Kropotkin gli risponderà che «Nel 1793, le idee comuniste non si elaboravano in un gabinetto di studi; sorgevano dai bisogni del momento. [...] Quel comunismo può anche sembrarci frammentario, tanto più che diverse persone si basavano ciascuna sui suoi differenti aspetti».
Nel 1927 Albert Mathiez darà grande spazio agli Arrabbiati in Carovita e lotte sociali nella Rivoluzione francese. Tuttavia, convinto robespierrista, con una certa tendenza a denigrarli e a minimizzarne il ruolo.
Alla fine è nell’Unione Sovietica che per la prima volta, e contemporaneamente, storici come Natalia Freiberg e soprattutto I. M. Sacher si interesseranno agli Arrabbiati al punto di pubblicare analisi d’insieme sulla loro corrente e dedicare delle biografie a ognuno dei principali personaggi.
N. Freiberg «sottolinea che la lotta degli Arrabbiati per [la] Costituzione [del 93] era quella della difesa dei diritti politici del popolo limitati dalla borghesia giacobina: il programma politico – e non solo economico – degli Arrabbiati aveva un carattere rivoluzionario e democratico che favoriva l’approfondimento della rivoluzione».
Sacher pubblica i suoi primi opuscoli su Jacques Roux e sugli Arrabbiati tra il 1921 e il 1925. Dopo aver lavorato agli Archivi nazionali a Parigi nel 1927, pubblica alcuni articoli su Roux, Varlet, Leclerc e Lacombe, e nel 1930 il suo volume su Gli Arrabbiati. Dapprima «incline a considerare la loro ideologia come “reazionaria”, perché contrapposta allo slancio inevitabile del capitalismo», riconsidererà il proprio punto di vista negli anni 60 pubblicando la versione definitiva del suo libro: Il Movimento degli Arrabbiati.
La cosa più straordinaria è constatare retrospettivamente che non una di queste opere, libri, articoli e opuscoli è stato tradotto in Francia, benché gli storici filosovietici non mancassero! A meno che non si tratti proprio di un elemento esplicativo: quegli storici francesi non desideravano prendere partito nei dibattiti ideologici estremamente severi che infuriavano in Urss attorno all’identificazione fra giacobini russi e francesi e che davano alla questione della natura di classe dei giacobini francesi (per cui anche alla valutazione del ruolo degli Arrabbiati) un'attualità incandescente. Alcuni dei loro confratelli sovietici (V. Daline, N. Freiberg, fra gli altri) provarono nei campi staliniani il carattere concreto e attuale di quegli scontri.
Dopo la seconda guerra mondiale, usciranno in Francia delle opere che testimoniano una corrente d’interesse per il movimento dei sanculotti e gli Arrabbiati. Sono: nel 1946 La lotta di classe sotto la Prima Repubblica di Daniel Guérin, poi Maurice Dommanget inaugura con Jacques Roux, le curé rouge et le “Manifeste des Enragés” (1948) i lavori dedicati al solo fra gli Arrabbiati ad essere stato oggetto fino ad oggi di uno studio sistematico, grazie soprattutto alle cinque opere del ricercatore tedesco W. Markov, una sola delle quali è stata pubblicata in francese: Jacques Roux, Scripta et Acta (1969).
La fine degli anni 50 e gli anni 60 vedono una intensa produzione storica sulla Rivoluzione francese e gli Arrabbiati. Il ricercatore norvegese Kare D. Tønnesson pubblica in francese La Défaite des sans-culottes – Mouvement populaire et réaction bourgeoise en l’an III (1959) ed Albert Soboul darà loro grande spazio in I sanculotti parigini nell’anno II (1958) dove cita abbondantemente L’Ami du peuple de Leclerc, ma la maggior parte degli studi saranno il risultato di storici sovietici e anglosassoni, le cui opere rimarranno per lo più inedite in francese!
Fatta eccezione per La Grande Révolution française bourgeoise du XVIIIe siècle di Albert Manfred, «una delle migliori opere di sintesi» secondo V. Daline, apparsa in russo nel 1956 ed in francese nel 1961.
Certo ispirato dalle nuove posizioni di Sacher, Manfred descrive così la critica degli Arrabbiati alla Costituzione del 93: «Costituendo il gruppo sociale più a sinistra dell’epoca e strettamente legato alla plebe, gli “Arrabbiati” si rendevano conto meglio di chiunque altro che i cambiamenti politici più radicali non potevano alleviare la cupa disperazione, i tormenti della fame e di un lavoro faticoso che opprimevano i combattenti più fedeli e più ardenti della rivoluzione». E più oltre: «La fine degli “Arrabbiati”, il gruppo di estrema sinistra che esprimeva le rivendicazioni degli strati inferiori della plebe, rivelava chiaramente la natura borghese del governo giacobino. Colpendo gli “Arrabbiati”, Robespierre e gli altri capi giacobini, da uomini politici borghesi, non solo hanno dimostrato di essere stati incapaci di collaborare con il gruppo più a sinistra delle plebe, ma hanno per di più colto la prima occasione per schiacciarli».
Fra gli anglosassoni, Reginald B. Rose pubblicherà nel 1965 The Enragés, Socialists of the french Revolution?. Né questa opera né i numerosi articoli dello stesso autore sono stati tradotti in francese. Di Morris Slavin, universitario americano che ha pure dedicato numerosi articoli e libri al movimento sanculotto e agli Arrabbiati, non disponiamo in francese che di un articolo su Varlet.
 
L’eccezione Jacques Roux
Come abbiamo visto, il prete è stato il primo degli Arrabbiati a suscitare l’interesse degli storici moderni, partendo da Dommanget, e in seguito e soprattutto Markov. Gran parte degli scritti di Roux è stata rieditata, sia da Markov in Scripta et Acta, sia in fac-simile; è il caso del suo giornale Le Publiciste de la République française (Ed. Edhis).
Mi sembra sia possibile leggere – in controluce – nei motivi di questo particolare interesse alcune ragioni della mancanza d’attenzione degli storici nei confronti degli altri Arrabbiati.
Certo, Jacques Roux ha pubblicato molto, ma è anche il caso di Varlet che non ha trovato grazia presso gli specialisti della Rivoluzione. Eppure, anche lui era ben inserito nella sua sezione dei Diritti dell’Uomo, come Roux lo era in quella dei Gravillier. Leclerc ha pubblicato un giornale contemporaneamente a J. Roux (e sullo stesso terreno ideologico, avendo ricreato il titolo di Marat L’Ami du peuple, mentre Roux riprenderà il Publiciste dal punto in cui il tribuno assassinato l’aveva lasciato), ma nessuno si è azzardato finora a ripubblicarlo in extenso. Leclerc avrebbe inoltre potuto pretendere un miglior trattamento da parte degli storici marxisteggianti, essendo stato citato ne La sacra famiglia come uno dei «principali rappresentanti del movimento rivoluzionario nato nel 1789 al Circolo sociale [...] e finito per soccombere temporaneamente con la cospirazione di Babeuf», e questo alla pari con Roux.
È probabile che la morte del prete, suicidatosi in carcere per sfuggire al tribunale rivoluzionario – della cui sentenza di condanna non dubitava – sia servita molto. Il suo suicidio, il 10 febbraio 1794, dispensa il biografo da fastidiose ricerche sulle tracce di una eventuale attività del personaggio dopo Termidoro. Infatti, cosa c’è di più riposante per lo spirito di un uomo di cui si conoscono le date di nascita e di morte! Non avendo avuto lo stesso buon gusto Varlet, Leclerc, Pauline Léon e Claire Lacombe, sebbene siano stati tutti imprigionati in un dato momento, di mettere un punto finale alla loro carriera, hanno scoraggiato in anticipo i ricercatori che non si sono dati la pena di inseguirli nel tempo.
Il decesso di Roux, causato indirettamente dalla repressione, è tanto più rimarchevole in quanto gli Arrabbiati parigini sono la corrente politica della Rivoluzione che ha conosciuto il più basso tasso di morte violenta dei suoi animatori.
L’altro vantaggio, se così si può dire, di una morte eroica e «prematura» è che mette l’eroe al riparo dalle accuse di tradimento e di debolezza. Vedremo che simili accuse non saranno risparmiate a Jean-François Varlet. Ma bisogna innanzitutto sottolineare un accostamento del tutto favorevole a Roux e pregiudizievole per gli altri Arrabbiati: la morte di J. Roux farà di lui un personaggio paragonabile a Babeuf, autentico eroe della storiografia rivoluzionaria marxista.
 
Il caso Varlet
Arrestato all'inizio del settembre 1794 per i suoi propositi giudicati controrivoluzionari, Varlet è inizialmente detenuto al Plessis. Sostenuto dalla sua sezione e dal Club elettorale, di cui è membro, resta incarcerato per lunghi mesi. In carcere pubblica in particolare Gare l’explosion! sotto l’epigrafe «Perisca il governo rivoluzionario piuttosto che un principio!», e successivamente un altro testo intitolato Du Plessis.
«Vi è ogni ragione per supporre, scrive Sacher, che i tratti caratteristici di questo nuovo opuscolo abbiano provocato la redazione di una lettera estremamente curiosa, firmata da cinque amici di Varlet di diverse sezioni parigine, e da loro inviata il 7 brumaio (28 ottobre) al Comitato di sicurezza generale. “Un patriota ai ferri ha avuto la disgrazia di perdere la testa. È giovane (Varlet ha trent’anni), c’è qualche possibilità, se riceverà un pronto soccorso. [...] Può farsi curare a casa. Se occorre risponderne durante la cura, aggiungono i firmatari – che si guardano bene dal chiederne la liberazione – noi siamo pronti”». Pur riconoscendo Sacher che era difficile sapere se gli amici di Varlet agissero con astuzia o se fossero sinceri (cosa che non li poneva al riparo dall’errore!), vedeva in ciò una prova del deterioramento mentale del prigioniero.
Basandosi su una lettera dell’Arrabbiato intitolata «Il cittadino Varlet prigioniero alla Force, in risposta ai motivi del suo arresto», Sacher scrive: «Contrariamente a quanto successe a Babeuf, sul quale la permanenza in prigione ebbe un’influenza salutare, contribuendo all’evoluzione delle sue idee, la lunga detenzione di Varlet, nel corso della quale non fu  interrogato una sola volta, ha esercitato un’influenza di tipo completamente differente. Lo ha spezzato completamente, ne ha fatto un uomo nuovo, assai diverso dal Varlet intrepido del passato».
Sacher afferma in conclusione che non esiste traccia di Varlet dopo il 1813 (data di un rapporto di polizia, peraltro errato, che lo riguarda) e, paradossalmente, che l’Arrabbiato sarebbe morto a Nantes poco dopo il 1830, cosa ugualmente falsa.
La diagnosi avventata sulla salute mentale dell’Arrabbiato compariva già nel primo tentativo di biografia pubblicato fra il 1914 e il 1923 sotto la firma di Paul d’Estrée. Con qualche precauzione, costui avanzava che «A detta di Sirey (Du Tribunal révolutionnaire an III), la ragione di Varlet non ha resistito alla prigionia. In altre parole, Varlet era diventato pazzo. [...] E chissà, concludeva, Varlet vide forse la propria carriera avventurosa [...] concludersi miserabilmente in fondo ad una camera d’isolamento a Bicêtre o in una cella di Charenton».
È tempo di esaminare brevemente le testimonianze del caso e di vedere se giustificano il disinteresse per un militante che una prolungata detenzione avrebbe prematuramente spezzato.
Il minimo che si possa dire dell’opuscolo intitolato Du Plessis è che non si tratta di un testo fondamentale per la storia della teoria rivoluzionaria, e probabilmente nemmeno di un capolavoro letterario. Da qui a concludere come fa Sacher che «l’incarcerazione aveva già spezzato il carattere di Varlet, cosa che permette di spiegare come mai quasi tre quarti di quell’opuscoletto siano pieni di riflessioni astratte e per metà mistiche sul patriottismo dell’autore, senza rapporto alcuno con le questioni politiche del momento», c’è appena un passo percorso allo stesso modo – sebbene con maggior prudenza – da Morris Slavin, secondo cui l’opuscolo riflette lo «squilibrio affettivo e la depressione mentale» di cui soffre Varlet. Almeno Slavin aggiunge che a suo avviso «verso la fine di quell’inverno [1794-1795] Varlet aveva sufficientemente recuperato sia sul piano fisico che su quello mentale».
Du Plessis si presenta come un insieme di note estratte da un’opera già redatta ed intitolata Vive la dictature de la déclaration des Droits de l’Homme. Si tratta prima di tutto di una breve parabola in cui la tirannia viene raffigurata coi tratti di un bulldog che non osa mordere dei bambini che gli mostrano coraggiosamente il pugno. Poi è un attacco contro Barère, aristocratico, «astuta volpe, Giano, anguilla, camaleonte, proteiforme, cortigiano dal triplo volto». Infine, il passaggio forse più curioso intitolato «Le pietre filosofali» in cui Varlet confronta i gioielli che portano al collo «le nostre piccole amanti, tronfi di fuori, vuoti di dentro» e che utilizzerebbe volentieri per realizzare una tavola dei diritti dell’uomo incastonata di diamanti, e le «pietre filosofali» che sono la Ragione e la Repubblica:
«I cenci e la miseria brillano: le fontange [morbide pettinature a più piani, ornate di rubini] e la magnificenza non brillano affatto. La sanculotteria brilla [...]. I preti e i Re non brillano affatto. Tutti gli esseri pensanti brillano nelle tavole scintillanti dei diritti dell’uomo [...]. Donnine eleganti! Belle per tutti! ecco il nostro lusso. In morale come in fisica, cosa c’è di più bello dei princìpi, il Porfirio e i Diamanti? Firmato Varlet, libero».
Paragonato alla produzione letteraria poetica e filosofica dell’epoca, questo testo può essere giudicato mediocre (a mio parere, ha un fascino naïf), ma certo non stravagante o delirante. Quanto alle lettere che Varlet invia al Comitato di sicurezza generale, in cui Sacher vede la prova che il prigioniero «ha rinunciato a tutti gli argomenti di carattere politico [...]. [e] non conta più che sulla pietà dei suoi persecutori», vi trovo invece l’impronta di un uomo certo ansioso, ma attento ad assumere fieramente i suoi impegni recenti presentandoli nel modo più favorevole possibile agli occhi dei suoi carcerieri. L’esercizio è pericoloso, ma attesta al tempo stesso il senso di dignità ed il realismo dell’Arrabbiato.
Riporto qualche estratto di una lettera intitolata «Testa calda e buon cuore», che attira i fulmini di Sacher: «Mi si rimprovera l’esaltazione, sì ero esaltato dall’amore dei princìpi, quando due anni fa feci una stesura dei diritti dell’uomo. Il repubblicanesimo mi entusiasmò quando feci una petizione contro l’indemnité des 40 sols che un decreto ha in seguito soppresso. [...] Non sono a conoscenza di denunce dirette contro di me. Sono incarcerato [...] per aver emesso opinioni contrarie al governo rivoluzionario. Non devo giustificarmi per questa accusa, essa mi onora. Cittadini deputati, nel nome delle leggi io reclamo il loro esercizio nei miei confronti, che l’umanità vi smuova. Sono orfano di padre, di madre, isolato, abbandonato, dimenticato. Chiamo la giustizia in mio soccorso. Poiché la invoco da solo, non avrò appoggi. [...] Dopo un maturo esame della mia condotta, o io ottengo la mia libertà di cui mi ritengo degno, o mi si consegni ai tribunali se esistono contro di me dei fatti di loro competenza. Le mie grida non sono appelli all’indulgenza, ma alla giustizia, rinuncio a tutto fuorché alla stima pubblica. La morte, la morte, la morte piuttosto che l’infamia».
Non dubito che alcuni avrebbero agito meglio in circostanze storiche analoghe, con la testa precariamente sulle spalle, dopo dieci mesi di detenzione, senza essere stati interrogati e senza notizie del proprio procedimento: lascio a costoro il delicato compito di stigmatizzare i deboli di spirito.
Citerò infine la conclusione di M. Slavin che ho fatto figurare sopra fra i testimoni dell’accusa: «se la forza di rifarsi una vita dopo le disastrose esperienze delle lotte partigiane e della prigionia denota il pieno possesso delle proprie facoltà; allora sicuramente la ricomparsa di Varlet nel 1830 come elettore e proprietario è un segno di stabilità. [...] Se mai è stato pazzo, aggiunge, Varlet non lo fu che alla maniera di Amleto, “quando il vento è a nord-nord ovest”. D’altronde egli era anche in grado di “distinguere una lucciola da una lanterna”».
Se possono fuorviare e scoraggiare gli storici, le reputazioni possono anche servire a quelli cui le si attribuisce. Indicato in un testo del 1794 come «una specie di pazzo furioso, agitatore infaticabile» dal girondino Jean-Baptiste Louvet, Varlet è inoltre considerato come «una specie di pazzo che nel 93 si fece conoscere a Parigi per le sue arringhe da energumeno» nel rapporto di polizia del settembre 1813 già citato. E allo stesso modo, poliziotti e storici concludono che il personaggio «non è affatto pericoloso, ha lasciato la capitale e [...] si è ritirato a Meaux o nei dintorni».
Certo, di Varlet si conoscevano alcuni opuscoli pubblicati a Nantes (Sacher segnala la loro esistenza, senza averli consultati), ma in fondo nessuno aveva sentito il bisogno di verificare la diagnosi poliziesca del 1813. Eppure non era molto difficile ritrovare le tracce dell’Arrabbiato, come ho potuto verificare; infatti, lo schedario alfabetico centrale dei notai conservato negli Archivi nazionali contiene una mezza dozzina di schede a suo nome. I documenti consentono di seguire il suo percorso geografico e le operazioni immobiliari che ha fatto per vivere.
Jean-François Varlet è oggi sul punto di uscire dal suo purgatorio grazie all’interesse che gli dedica una nuova generazione di ricercatori usciti dagli ambienti libertari e dell’ultrasinistra. Fra questi, Yves Blavier ha già pubblicato negli Annales historiques de la Révolution Française (n. 284, aprile-giugno 1991) un riassunto dei suoi lavori. Egli è anche autore di una biografia di Varlet di prossima pubblicazione.
 
Le Arrabbiate
Le militanti rivoluzionarie che si unirono alla corrente Arrabbiata si suppone che abbiano dovuto soffrire la misoginia dei loro avversari e di molti loro compagni. Neanche gli storici più attenti si sono sbarazzati di un comportamento più o meno arrogante e riduttivo. Così Daniel Guérin riteneva che le Repubblicane rivoluzionarie fossero «in qualche maniera la sezione femminile del movimento degli Arrabbiati». Dominique Godineau ha mostrato nella sua notevole opera Citoyennes tricoteuses (Ed. Alinéa, 1989) che al contrario il club femminile fu teatro di aspre lotte intestine che prevalse a fatica sulla tendenza Arrabbiata guidata da Pauline Léon (cofondatrice del club) e da Claire Lacombe.
Attrice di mestiere, quest’ultima ha focalizzato l’attenzione dei contemporanei e degli storici. Il montagnardo Choudieu, deputato di Maine-et-Loire, scriveva al riguardo: «La signorina Lacombe non aveva altro merito che un bel fisico. Nelle nostre feste pubbliche rappresentava la dea della libertà. Come la signorina Théroigne, aveva una grande influenza nei gruppi. Non possedeva alcuna qualità brillante, ma le sue maniere garbavano alla massa del popolo».
Un altro convenzionale – un dantonista – Marc-Antoine Baudot nega che C. Lacombe abbia avuto una qualsiasi influenza: «non attirava la folla come la signorina Théroigne, perché non aveva le bizzarrie della sua emula [sic]; era semplicemente una bella donna. La bellezza era nulla in quella circostanza; occorrevano atti e una certa singolarità». Singolarità ed energia, ecco quanto non mancava a Claire o a Pauline, così come a tutte quelle militanti che gli archivi ci mostrano con le armi in pugno nel corso di moti popolari e che non esitavano ad affrontare gli uomini in scontri violenti che spesso portavano al loro arresto. Ma si percepisce bene quanto disprezzo e soprattutto congiura retrospettiva vi sia nelle affermazioni dei deputati. Per quegli uomini, le donne rivoluzionarie sono pericolose quando sono belle, e se sono insignificanti è perché sono solo belle! Difficile sfuggire a una simile griglia di lettura! e ritroveremo Claire, cui viene affibbiato assai spesso il nome di Rose, in molte opere di finzione o di una serietà storica più che discutibile. Così eccola destinataria inventata delle lettere scritte da Théroigne de Méricourt, la graziosa liegese (dal visconte di V....y; Varicléry, pseudonimo di La Mothe Langon, 1936); comparirà anche a fianco di Olympe de Gouges come rappresentante di quelle donne che «incapaci di fissare sufficientemente la loro intelligenza, vogliono agire e sono prese dalla febbre di dirigere le folle», sotto la penna di un Dr Alfred Guillois che pubblicò nel 1904 uno Studio medico-psicologico su O. de Gouges: considerazione generale sulla mentalità delle donne durante la Rivoluzione francese.
Ce ne furono certamente di meno mediocri; per esempio l’Histoire des clubs de femmes et des légions d’amazones del barone Marc de Villiers, uscita nel 1910, ma è soprattutto l’opera di Léopold Lacour, Les Origines du féminisme contemporain. Trois femmes de la Révolution: O. de Gouges, Th. de Méricourt, R. Lacombe (1900) che merita di essere segnalata come il primo serio tentativo di una biografia. Menzioniamo infine Le Club des citoyennes républicaines révolutionnaires di Marie Cerati (1966).
Ancora oggi, e malgrado il lavoro di Dominique Godineau, Claire Lacombe attende il suo biografo (o la sua biografa).
 
Un partito?
La questione di sapere se gli Arrabbiati formassero un «partito» oltrepassa ampiamente lo scopo del presente articolo. Tuttavia non è inutile evocarla brevemente nella misura in cui ha pesato sull’atteggiamento degli storici nei loro confronti.
In Carovita e lotte sociali..., Mathiez segnala con un’espressione senza sfumature la comparsa di «un partito nuovo che i suoi avversari chiamano già gli Arrabbiati», e i cui «capi» sono Varlet e Roux. Paradossalmente, gli autori che misero in discussione questa concezione con l’aiuto di argomenti più seri si interessarono nondimeno agli Arrabbiati, fino a dedicare delle monografie a ciascuno di loro. Sacher ritiene che «i [loro] capi agirono quasi sempre senza mettersi d’accordo, indipendentemente gli uni dagli altri e ciascuno per sé». Egli considera addirittura l’assenza d’organizzazione propria la principale debolezza degli Arrabbiati, che ne consentì la facile eliminazione ad opera dei Giacobini. Rose conclude prudentemente: «sembra che esistano sufficienti prove per giustificare l’uso corrente secondo il quale gli Arrabbiati sono considerati un “partito”, a condizione che il termine sia interpretato nel senso più largo e più informale, e nella misura in cui si riconosca che il concetto di un “partito Arrabbiato” così descritto è una creazione artificiale ed arbitraria degli storici».
I due criteri principali di valutazione della coerenza della corrente degli Arrabbiati parigini sono i contatti personali fra i suoi principali animatori e le similitudini fra le loro rispettive strategie e parole d’ordine.
Anche in assenza di un elenco sistematico delle occasioni in cui gli Arrabbiati si sono trovati fianco a fianco, è evidente che essi si incrociavano regolarmente nei diversi club e società dove è accertata la loro partecipazione: dai Cordolieri (Roux, Varlet, Leclerc, Léon); alla Società fraterna dei patrioti dell’uno e dell’altro sesso (Varlet, Leclerc, Léon); dai Giacobini (Leclerc, Varlet, Roux); all’Assemblea elettorale (Roux, Varlet), ecc.
È significativo che degli storici, che pur disponevano di una sufficiente documentazione, abbiano sottovalutato i contatti fra i diversi militanti. E così Dommanget e Rose sono disposti a credere a Leclerc allorché afferma nel settembre 1793 di non aver avuto relazioni «né dirette né indirette» con J. Roux. Dommanget vi vede un elemento di prova della scarsità di contatti fra gli animatori Arrabbiati; «Leclerc – scrive – ha riconosciuto che, nel periodo decisivo che va dal 1 giugno all’inizio di settembre 1793, non ha visto J. Roux che un’ora al massimo e in due riprese, assolutamente per caso». Mathiez era, a giusto titolo, più diffidente. In effetti Leclerc mente ed è possibile stilare l’elenco – molto probabilmente incompleto – delle occasioni in cui lui e Roux si trovarono insieme, incaricati di effettuare compiti comuni, o difesero le stesse posizioni. Ma Leclerc finge di credere che gli vengano rimproverati dei contatti segreti con il prete, e sia che egli non ne abbia effettivamente mai avuti sia che giudichi impossibile stabilirli, li nega. Da questo punto di vista, è quasi certo che gli Arrabbiati non hanno mai formato un gruppo di cospiratori che si riunivano regolarmente per decidere azioni da intraprendere. Siamo quindi lontani da un modello babuvista o bolscevico.
Resta da stabilire se nelle parole d’ordine avanzate dagli Arrabbiati la coerenza avesse la meglio sulle dissonanze. Sembra che sia proprio questo il caso, soprattutto se a «coerenza» si preferisce il termine convergenza. In effetti, gli Arrabbiati reclamano in comune una dura repressione dell’accaparramento e dell’aggiotaggio, la pulizia dall’esercito e dall’amministrazione di ex-nobili e sospetti tali, e più in generale l’uso del Terrore contro gli aristocratici, i preti refrattari e tutti i controrivoluzionari. Queste rivendicazioni non appartengono solo a loro, anche accompagnate al ricorso all’insurrezione (d’altronde possono esistere forti divergenze sull’opportunità di farvi ricorso; vedi la denuncia di Varlet come «disorganizzatore» da parte di J. Roux dopo il tentativo d’insurrezione del 10 marzo 93), ma si può ritenere con R. B. Rose che ciò che distingue gli Arrabbiati da altre tendenze estremiste come gli Hébertisti sia più nella rapidità d’azione e nel contatto con le masse sanculotte che nei principi ostentati: «Essi furono i primi ad esprimere (to coin) gli slogan popolari; furono il primo gruppo estremista a tentare di utilizzare la pressione popolare per costringere la Convenzione». Del resto le rivendicazioni avanzate maggiormente dall’uno o dall’altro degli Arrabbiati – mandato imperativo e democrazia diretta da Varlet, nazionalizzazione del commercio da Leclerc, ecc. – andavano tutte nel senso di un egualitarismo e di una esigenza democratica più marcati in rapporto alla concezione dei Montagnardi. Esse convergevano comunque, e in modo sempre più radicale, man mano che il governo rivoluzionario tentava di eliminare gli Arrabbiati, nel rifiuto di vedere la Rivoluzione confiscata dagli uomini di Stato.
È senza dubbio l’originalità e la preoccupazione comune principale ai Varlet, Leclerc, Lacombe, Léon, di cui Jacques Roux constata amaramente che dopo averli «utilizzati per spezzare lo scettro del tiranno [è stato loro fatto pagare] il rifiuto di inginocchiarsi davanti ai nuovi re».
 
 
[tradotto da qui]