Brulotti

La Repubblica e i repubblicani

Élisée Reclus
 
Tutti noi che abbiamo visto, durante la nostra lunga vita, succedersi le Rivoluzioni politiche, possiamo renderci conto di questo lavoro incessante di peggioramento che subiscono le istituzioni basate sull’esercizio del potere. Vi fu un tempo in cui la parola “Repubblica” ci recava l’entusiasmo: ci sembrava che questa parola fosse composta da sillabe magiche, e che il mondo si sarebbe come rinnovellato il giorno in cui si fosse potuta finalmente pronunciare a voce alta sulle pubbliche piazze. E chi erano quelli che bruciavano di questo amore mistico per l’anniversario dell’era repubblicana, e che vedevano con noi, col cambiamento esteriore, l’inaugurazione di tutti i progressi politici e sociali? Eran quei medesimi che ora sono al Potere e che fanno gli amabili con gli ambasciatori russi e coi baroni della finanza. E veramente, non dico che in quei tempi ormai lontani quegli arrivati fossero in massa dei puri ipocriti. Ve n’erano tra essi di quelli che guardavano dove il vento tirava e orientavano la loro vela. Ma la maggior parte era senza dubbio sincera: essi credevano alla Repubblica, ed era con tutto il cuore che acclamavano la trilogia: Libertà, Eguaglianza, Fratellanza.
Ma quanto cammino percorso d’allora! La Repubblica come forma di Potere si è affermata, ed è appunto in proporzione della sua affermazione ch’essa è diventata servile, come, per un movimento d’orologeria, altrettanto regolare quanto la marcia dell’ombra su un muro, tutti quei giovani ferventi che facevano gesta eroiche davanti ai poliziotti, a poco a poco sono diventati dei prudenti e timorati nelle loro domande di riforme, poi dei soddisfatti, ed infine dei gaudenti e dei crapuloni privilegiati. La magica Circe, chiamata anche la lussuria della fortuna e del Potere, li ha cambiati in maiali! E il loro bisogno tende sempre più a consolidare le istituzioni che altra volta attaccavano. Essi si adattano perfettamente con quelli che li avevano indignati. Essi che tuonavano contro la Chiesa e le sue usurpazioni, si adattarono ora al Concordato e danno del monsignore ai vescovi. Parlarono con eloquenza della fraternità universale ed oggi li si oltraggia se si ripetono semplicemente le parole che pronunciarono allora. Denunciarono con orrore l’imposta di sangue ma recentemente irreggimentarono persino i marmocchi e può darsi che si preparino a convertire le scuole in altrettante caserme. “Insultare l’esercito” — e cioè non nascondere le turpitudini dell’autoritarismo senza controllo e dell’obbedienza passiva — è, per loro, il più grande delitto. Mancar di rispetto all’abbietto poliziotto, o al servitorame dei legali seduti o in piedi, è oltraggiare la giustizia e la morale. Non vi è vecchia istituzione ch’essi non tentino di consolidare; grazie a loro l’Accademia, così odiata prima, gode di una specie di popolarità; si pavoneggiano sotto la cupola dell’Istituto quando uno di loro divenuto spia, ha infiorato di palme verdi il suo abito alla francese. La croce della legion d’onore da loro derisa, venne tosto da loro stessi sostituita con delle nuove, gialle, verdi, blu, multicolori. Ciò che si chiama Repubblica spalanca le porte del suo ovile a coloro che ne aborrirono sino il nome, araldi del diritto divino, cantori di Sillabo; perché essi non dovrebbero entrare? Non vivono essi in mezzo a tutti quelli arrivati che li circondano col cappello in mano?
Non si tratta qui di criticare e di giudicare quelli che con una lenta corruzione o con dei bruschi sbalzi son passati dal culto della santa Repubblica a quello del Potere e degli abusi sacrosanti! Dal loro punto di partenza, la carriera ch’essi hanno seguita è precisamente quella che dovevano percorrere. Essi ammettevano che la società dovesse essere costituita in uno Stato avente il suo capo e i suoi legislatori; tutti avevano la “nobile” ambizione di servire il loro paese e di “dedicarsi” alla sua prosperità e alla sua gloria. Accettavano il principio, le conseguenze erano inevitabili. Repubblica e repubblicani sono diventati la triste cosa che noi vediamo; e perchè ce ne irriteremo? È una legge naturale che l’albero porti i suoi frutti, che i governi fioriscano a fruttifichino capricci, tirannia, usura, scelleratezza, omicidi e disgrazie.
È chimera aspettare che l’Anarchia, ideale umanitario, possa sortire dalla Repubblica, forma governativa. Le due evoluzioni si fanno in senso opposto e i cambiamenti non possono compiersi che con una rottura brusca, cioè con una Rivoluzione.
 
 
[L’avvenire anarchico, anno X, n. 28, 25/7/1919]