Contropelo

Sicuro come la morte

«Un popolo che è disposto a rinunciare ad un po’ della sua libertà
in cambio di un po’ di sicurezza non merita né l’una né l’altra»
Benjamin Franklin
 
 
È una questione di cui si fa un gran parlare, ma la cui diagnosi è secca. A destra o a sinistra, il verdetto è unanime: viviamo in un «clima di insicurezza».
Ogni giorno i notiziari ci rovesciano addosso litri di sangue raccolti sui luoghi teatro di agguati, stupri, omicidi. Fatti cruenti descritti e filmati con maniacale dovizia di particolari, sì da far correre orribili brividi lungo la nostra spina dorsale già indebolita dalle quotidiane genuflessioni.
Guardare le altrui sventure non è più una consolazione, non riusciamo a tirare un sospiro di sollievo al pensiero di averla scampata. È un incubo, perché quelle sventure sembrano premere sugli schermi per precipitarsi sul tappeto dei nostri salotti. E se un domani diventassimo noi i protagonisti di quei telegiornali che ormai grondano solo morte? In preda al terrore, cominciamo a serrare a tripla mandata la porta di casa, a non parlare col nuovo vicino, a non uscire più la sera. Il panico si diffonde, si generalizza come la seguente certezza: l’insicurezza è il flagello della nostra epoca. Se venisse risolto, si aprirebbero per noi i cancelli del paradiso.
A dirla tutta, qualche perplessità sul reale aumento della violenza non manca. Dietro esplicita richiesta, gli stessi “esperti” sono costretti a riconoscere che non vi è poi una differenza sostanziale rispetto al passato: l’impennata delle statistiche è frutto di un diverso criterio di contabilità. Ma anche di visibilità. Funziona così. La classe politica pone la questione della sicurezza al centro di quasi tutti i suoi interventi. I giornalisti, servizievoli come d’abitudine verso i loro padroni, ripetono le preoccupazioni dei politici e le arricchiscono illustrandole con fatti di cronaca. Le notizie da riportare non mancano, basta non relegarle in un trafiletto in quindicesima pagina per farle crescere a dismisura fino a farle diventare esemplari. Ai politici non resta che commentarle ed il gioco è fatto: «avete visto che le nostre preoccupazioni erano più che giustificate, erano sacrosante? Esiste per davvero una questione sicurezza!».
In fondo tutto questo affannarsi non avrebbe poi una grande importanza se non mirasse a spargere il terrore fra la gente, spingendola a rivolgersi ai suoi rappresentanti per reclamare drastici rimedi. Contro chi? Ma contro quei piccoli delinquenti che diventano giganti del crimine non appena finiscono sotto la luce dei riflettori.
Va da sé che i piccoli delinquenti non sono esattamente in cima alla lista dei problemi che turbano le nostre vite. Ben altri disastri mettono in pericolo la sopravvivenza nostra e di questa epoca. Il pianeta è minacciato da squilibri ecologici, sui posti di lavoro incombono tagli e ristrutturazioni, le nostre case sono alla mercè dei ladrocini delle banche, la salute è corrosa dai veleni che mangiamo e respiriamo...
È tutta la nostra esistenza ad essere minacciata da pericoli immanenti (per non parlare delle guerre in corso e in preparazione, coi loro imprevedibili effetti collaterali), le cui conseguenze sono ben peggiori del furto di un portafoglio sull’autobus. L’inventario delle possibili sventure è così vasto, i nostri giorni trascorrono talmente all’insegna della precarietà e della miseria, che è soltanto demenziale ritenere che i piccoli delinquenti siano la causa del malessere sociale.
Ma allora, per quale diavolo di motivo ci viene ripetuto fino allo stordimento che l’aggressione è in agguato dietro l’angolo? Semplice. Perché lo Stato possa indossare i panni del Grande Protettore attorno a cui stringersi e del Riparatore dei Torti a cui rivolgersi, non potendo essere notoriamente i rapinatori, gli scippatori, gli spacciatori, gli stupratori o gli assassini — occasionali o impenitenti, veri o presunti, indigeni o forestieri  — i responsabili delle devastazioni ambientali, dei licenziamenti, delle speculazioni finanziarie, delle frodi alimentari, degli infortuni sul lavoro, dei bombardamenti di civili, delle carestie che affliggono il mondo e di ogni altra grande questione sociale. C’è forse bisogno di svelare chi siano i più diretti responsabili di tutti questi accadimenti? La punizione dei ladri di galline sulla pubblica piazza serve allo Stato e ai suoi scherani per distogliere l’attenzione generale dal foraggiamento dei pescecani in privato. Chiodo schiaccia chiodo — ecco perché le istituzioni diffondono un panico da attribuire a qualcun altro, alimentandolo di continuo e gonfiandolo in ogni modo.
La fobia securitaria offre di riflesso un altro significativo vantaggio alla classe politica, legittimando il ricorso a misure sempre più dure e severe richieste dalla stessa popolazione, per ottenere prima di tutto «la certezza della pena». (Per chi? ma questa è un’altra faccenda). Comunque sia, una popolazione terrorizzata dalla possibilità di venir borseggiata applaude all’incremento delle forze dell’ordine, una popolazione intimorita per i reati commessi dagli immigrati accoglie con sollievo la presenza dei Cpt [oggi Cie], una popolazione spaventata dall’eventualità di trovarsi degli intrusi in casa è favorevole alla capillare diffusione della sorveglianza, e via discorrendo. Ma i provvedimenti che vengono decretati in nome della lotta contro i pochi piccoli delinquenti torneranno utili soprattutto contro i molti potenziali ribelli. Più della microcriminalità, sono i conflitti sociali il vero pericolo da reprimere. Lo sfruttamento politico del sentimento di insicurezza è un formidabile motore di leggi repressive. Il clima di terrore in cui viviamo non è affatto il risultato naturale delle odierne condizioni sociali: è stato deliberatamente creato per far scivolare il cittadino soddisfatto in un inaudito regime poliziesco. Lo Stato identifica il problema della sicurezza pubblica con la “microcriminalità” al fine di imporre la sua soluzione: la Pubblica Sicurezza.
Tutte le misure securitarie sono autentici attacchi alla libertà individuale e non potrebbero essere prese così alla leggera se nel corso degli ultimi anni non fosse avvenuta una vera e propria operazione di polizia del pensiero, mirante ad imporre l’idea secondo cui la sicurezza è garanzia di libertà, anziché la sua negazione preventiva. Così sono stati creati la malattia e il rimedio, conciliando in un’alleanza ideologica di ferro la sicurezza e la libertà. Alleanza assurda, impossibile fra due nozioni contraddittorie e che, come l’acqua ed il fuoco, non possono rimanere a contatto senza dissolversi a vicenda.
I cantieri della sicurezza vengono oggi costruiti sulle tombe della libertà. La sicurezza ha come obiettivo l’allontanamento di ogni pericolo, mentre l’esercizio della libertà comporta viceversa la sfida ad ogni pericolo. Non è un caso se l’espressione “mettere al sicuro” indica solitamente il gesto di chiudere sotto chiave. L’esempio tipico è quello dell’animale selvaggio strappato dalla giungla per essere rinchiuso in gabbia. In questo modo, assicurano gli amministratori dello zoo, l’animale viene salvato dai pericoli della giungla e messo al sicuro. Dietro le sbarre non correrà il rischio d’essere abbattuto dai cacciatori o sbranato da bestie feroci. Ebbene, questo animale si trova sì al sicuro, ma a un caro prezzo — la sua libertà. È risaputo: evitando il pericolo non si vive la vita, la si conserva a malapena; perché solo andando incontro al pericolo una vita viene vissuta nella sua pienezza.
L’unione fra sicurezza e libertà è dunque irrimediabilmente incompatibile.
«Più controllo c’è, più siamo al sicuro» dice il popolo bue. E poi rincara la dose: «Le telecamere sono utili perché sotto i loro occhi non può succedere niente». Espressioni agghiaccianti, sintomo di amore incondizionato per il Grande Fratello. Ma chi vorrebbe vivere una vita sottoposta al controllo e in cui non succeda niente? Solo a costo di un completo obnubilamento si può entrare felicemente nel deserto emozionale in cui arranca la nostra epoca.
La libertà è autodeterminazione, scelta di qualsiasi possibilità, azzardo, una sfida all’incognito che non può realizzarsi sotto una campana di vetro.
Ma ai giorni nostri la prima qualità richiesta ad una persona “onesta” è proprio di condurre la vita in tutta trasparenza. Una persona trasparente ha nulla da nascondere, nulla da tacere della sua vita pubblica e privata, quindi nulla da temere dallo sguardo altrui. Nel nome della trasparenza ogni intrusione diventa legittima, ogni volontà di mantenere il segreto indice di colpevolezza. È curioso come ciò che un tempo era circondato dal rispetto e dalla discrezione, la vita privata degli individui, sia oggi guardato con sospetto. Con un’acrobazia logica e retorica, proteggere i propri segreti è diventato un atteggiamento losco. Messa al bando la vita privata, è ovvio che quanto permette di svelarla — l’investigazione — viene consacrato a valore primario. Se così è, i mezzi impiegati a questo scopo non sono e non possono essere messi in discussione. Apologia dell’intercettazione!
All’inizio questa esigenza di trasparenza era sorta per contenere i soprusi di chi detiene il potere. Esigere trasparenza nella vita degli uomini pubblici, di chi ricopre alte responsabilità, ha una funzione più che comprensibile. Costoro devono rispondere del modo in cui gestiscono la “cosa pubblica”, cioè essere messi in condizione di non abusare dei loro privilegi. Ma la pretesa inversa — che siano le persone comuni ad essere trasparenti agli occhi di chi detiene il potere — è quanto di più terribile si possa immaginare. Con il pretesto dello scambio di “informazioni” e di una reciprocità nel controllo si gettano le fondamenta del totalitarismo.
Già in sé la trasparenza ad ogni costo ha spiacevoli ricadute: nell’essere umano esistono zone che sfuggono per natura ad ogni sguardo indiscreto. L’intimità di una persona, coi suoi gusti sessuali per esempio, è una di queste. C’è stato un tempo in cui chi si interessava all’intimità degli altri veniva accusato di sguazzare nel pettegolezzo e guardato con riprovazione. Ribattezzato “gossip”, il pettegolezzo è oggi considerato il pigmento che dà sapore a conversazioni altrimenti insipide. Squallore di un mondo che ha trasformato i vizi privati in pubbliche virtù.
Ma chi si ferma a riflettere su quale sia la causa di questo effetto? Le nostre case sono diventate portinerie, è vero, ma si tratta di una controindicazione della terapia d’urto ordinata contro la libertà di pensiero. Per stanare questa libertà che è sempre possibile proteggere con il segreto, si fa fuoco nel mucchio. Il richiamo alla trasparenza è l’onoranza funebre che precede le esequie del cadavere della libertà, in tutti gli ambiti della vita umana.
E noi, anziché ribellarci di fronte al plotone di esecuzione, chiniamo la testa. Viviamo in una società in libertà vigilata e ogni giorno ci rechiamo diligentemente a firmare  il registro della rassegnazione. Noi — per via della soggezione che proviamo di fronte alla libertà assoluta, senza limiti né barriere; per via dell’assordante martellamento mediatico che ci fa vedere nemici dappertutto, sollecitandoci ad optare per il male minore del controllo sociale; ma anche per via della nostra compartecipazione nell’abiezione — ci sentiamo piuttosto sollevati. Nel corso degli ultimi anni, non solo la televisione ci ha rassicurato circa la bontà di poliziotti, carabinieri e magistrati — eroi di infinite trasmissioni seriali — ma quante volte ci ha invitato a spiare direttamente dal buco della serratura? I cosiddetti “reality show” hanno avuto l’effetto di renderci familiare e normale l’idea di una vita trasparente, che si svolge sotto gli occhi di tutti e che periodicamente va giudicata, punita o premiata.
La protesta contro la devastazione della riservatezza viene contrastata da un argine diventato classico: «se non si ha nulla da nascondere, non c’è nulla da temere dal controllo». Stupefacente ragionamento di natura sbirresca, che ancora una volta attraverso un rovesciamento logico fa della discrezione un vizio e dell’ingerenza una virtù. La vita quotidiana assomiglia sempre  più a una galera, dove si prendono le impronte digitali a chiunque nasca, dove si passa attraverso innumerevoli metaldetector, dove si viene osservati da occhi elettronici, dove la presunzione di innocenza ha lasciato il posto alla presunzione di colpevolezza.
È un’ulteriore conseguenza del clima di terrore alimentato dall’ideologia securitaria. Se tutti si sentono insicuri, significa che ognuno rappresenta una minaccia per l’altro, quindi non esistono vittime ma solo colpevoli o potenziali colpevoli. Se io mi voglio proteggere dal mio vicino, e al tempo stesso il mio vicino vuole proteggersi da me, ne consegue che siamo entrambi possibili aggressori ai quali sarebbe pericoloso riconoscere una qualche libertà.
Siamo diventati tutti sospetti per quel che potremmo fare se usassimo la nostra libertà. Lo Stato va fino in fondo a questa logica e fa valere il suo “diritto” di punire questa minaccia fin nelle sue più innocue manifestazioni — addirittura di reprimerla preventivamente. Prima almeno si sosteneva che l’individuo diventasse perseguibile dal momento in cui i suoi intenti trasgressivi venivano messi in pratica. Chiunque poteva sognare di uccidere, nessuno poteva farlo impunemente (a meno che non indossasse un’uniforme, naturalmente). La civiltà democratica, occidentale, amava riempirsi la bocca con la sua “superiorità” nei confronti delle altre civiltà, giudicate oscurantiste in quanto non assicuravano al loro interno una completa libertà di pensiero.
Solo una menzogna propagandistica, certo, ma che almeno doveva venire camuffata al fine di sembrare verosimile. Oggi la repressione si è sgravata da ogni imbarazzo ed è palese a tutti che il solo sogno di trasgredire, la sola divergenza di pensiero, sono più che sufficienti per attirare il pugno di ferro della magistratura. Un esempio? Le retate che periodicamente fanno scattare le manette ai polsi a chi ha scaricato immagini “pedo-pornografiche” da Internet. Per quanto criticabile, disprezzabile, odioso sia un simile comportamento, sta di fatto che queste persone vengono incriminate non per aver abusato di qualche minorenne, ma per aver guardato delle fotografie nell’intimità del proprio domicilio. A quando i pubblici roghi delle opere di Sade? Un altro esempio, su un altro versante, è quanto capitato ad alcuni amici degli arrestati lo scorso 12 febbraio nell’ambito dell’indagine sulle così chiamate “nuove BR”. Fermati da una pattuglia della polizia nell’atto gravissimo di affiggere manifesti, sono stati anch’essi tratti in arresto. Già il fatto in sé è indicativo, dato che un manifesto può al massimo esprimere un’idea. In più l’idea espressa in quei manifesti non era nemmeno un’incitazione alla lotta armata, bensì l’equiparazione della Guerra al Terrorismo. A quando le retate di antimilitaristi e pacifisti?
L’individuo, con le sue idee, i suoi desideri, le sue pulsioni, costituisce una minaccia per l’ordine sociale, ma anche per se stesso e gli altri. Da qui nasce il clima da guerra civile che si sta diffondendo: coprifuoco notturno, pattugliamento di soldati armati, posti di blocco. È come se si fosse dichiarata guerra a un nemico immaginario, che non c’è ma potrebbe esserci. A tutti e a nessuno. Se ogni individuo è un potenziale delinquente, e se ogni delinquente è un nemico dello Stato, allora è una guerra contro gli individui che va condotta. Ora, c’è una differenza sostanziale fra il concetto di delinquente e quello di nemico. Al primo viene comunque riconosciuta la sua appartenenza alla comunità. Al secondo, no. Al nemico non si concedono attenuanti, non si patteggiano punizioni, non si finge nemmeno di volerlo redimere: si distrugge. Contro di lui, tutto è permesso. Le guerre sono operazioni di polizia, le operazioni di polizia sono guerre.
C’è un solo modo per evitare di venire considerato un nemico interno da eliminare. Rispettare la legalità. Ma le preghiere a quest’idolo moderno non proteggono dai pericoli, tranne forse quello della collera divina. In chi è ateo sorge però un atroce dubbio: perché mai la legge in sé dovrebbe essere sinonimo di Bene? In fondo durante il nazismo la persecuzione degli ebrei era legale. Legale è la pena di morte in molti Stati, legale è la tortura per estorcere informazioni, legale è la fabbricazione di testate nucleari... La legalità di un atto denota unicamente la sua conformità a quanto prescritto dalla legge, cioè agli interessi di quella classe dominante che ne è autrice, ma non dice nulla circa il suo valore, il suo significato, le conseguenze. La cultura della legalità porta quindi esclusivamente all’ignoranza dell’obbedienza, che da molti anni ha smesso di essere una virtù persino per i preti (pur continuando ad essere il dolce sogno dei tiranni).
E questo non è nemmeno l’aspetto peggiore. Per scorgere verso quali abissi spinga l’esaltazione della legalità, basta porsi un semplice interrogativo: perché non commettiamo un atto come, ad esempio, lo stupro? Ci rifiutiamo perché lo consideriamo un atto ripugnante, che va contro le nostre idee e i nostri sentimenti, oppure perché esiste un articolo del codice penale che lo vieta e lo punisce? Nel primo caso, la nostra motivazione può essere definita etica. Nel secondo, è legale. Sostenere che gli esseri umani devono seguire la legalità dello Stato, anziché la loro etica singolare, significa dichiarare l’impossibilità per l’individuo di stabilire da sé cosa è giusto e cosa è sbagliato. Dopo la capitolazione del libero arbitrio di fronte all’arbitrio dell’autorità, il codice penale diventa la coscienza di un mondo che non ha più coscienza. Un mondo in cui l’essere umano viene considerato privo di intelligenza, sordo al sentimento, insensibile alla sofferenza — una bestia feroce da ingabbiare, controllare e reprimere. È il prezzo da pagare per impedire che l’etica possa insorgere contro la legalità.
Una società che vede nei suoi membri i propri nemici e affida all’autorità il compito di reprimerne le azioni e i pensieri, una società pronta a sacrificare ogni libertà in cambio di un briciolo di sicurezza, una società che vede nell’obbedienza alla legge il Bene e nella trasgressione della legge il Male, non  può che finire nel totalitarismo. Come altro definire una società messa sotto il regime di libertà sorvegliata da uno Stato che si è dotato di tutte le armi e i mezzi di polizia per controllare ogni minimo particolare della vita delle persone?  Come sosteneva Hannah Arendt, anche una democrazia può essere totalitaria. Uno Stato totalitario è uno Stato che esige come fosse un dovere civico non solo il rispetto delle leggi, ma anche di pensare ciò che queste leggi pretendono che si pensi. In soldoni, criminali non sono solo gli insorti che a Genova nel 2001 hanno infranto le vetrine delle banche, ma anche chi ha “compartecipato psichicamente” non fermandoli e denunciandoli. Questo ordine sociale non si limita a reprimere l’ostilità nei suoi confronti, ma anche l’indifferenza: amarlo è un dovere e chi non lo esegue va perseguito.
Purtroppo esiste un angolo morto, un punto cieco nella nostra mente che ci impedisce di paragonare il totalitarismo del mondo moderno a quello che ha caratterizzato la prima metà del secolo scorso. Come se la gravità di quanto è accaduto in passato certificasse la lievità di quanto sta accadendo nel presente. Come se il filo spinato che circondava Auschwitz avesse uno spessore diverso di quello che circonda i campi di concentramento odierni, da Guantanamo ai Centri di permanenza temporanea.
Ma chi non si ferma di fronte alla mancanza di camere a gas, chi non ritiene che la spietatezza di un regime sia data da un aspetto particolarmente raccapricciante, non può non cogliere le similitudini che intercorrono fra le due epoche. Basta guardarsi attorno per scorgere nei nostri comportamenti quotidiani la medesima banalità del male, l’identica estraniazione dell’individuo, la stessa perdita dell’io attraverso una combinazione di ideologia e terrore.
Oggi un solo modello di vita regna da occidente ad oriente, senza essere messo in discussione da nessuna parte. Questa onnipresenza sta diventando un suo cruccio. Finché il capitalismo aveva un nemico, aveva anche un capro espiatorio su cui scaricare ogni responsabilità (cosa che per altro avveniva reciprocamente). Ma ora, a chi attribuire la colpa se il pianeta si trova sull’orlo del baratro?
Il mondo infine alla portata di tutti — un enorme ipermercato rigurgitante merci plastificate — non ha elargito nessuna felicità, nessuna pace, nessuna uguaglianza. Nemico è ora diventato chi protesta contro questo mondo, cioè potenzialmente chiunque. L’ideologia securitaria anticipa i tempi, non attende l’esplosione della rabbia, attribuisce il terrore degli attuali rapporti sociali alla libertà degli individui — trasformando fin da subito chiunque in nemico, rendendoci sospetti gli uni agli occhi degli altri, isolandoci nella nostra paura, scatenando una guerra fra poveri per disinnescare una guerra sociale — e prende le misure legislative e poliziesche necessarie per reprimere una simile minaccia.
In questo senso, quella che alcuni chiamano deriva securitaria può essere considerata una gigantesca opera di controinsurrezione preventiva. 
 
[Machete, n. 1, gennaio 2008]