Intempestivi

La breve estate

 

Certo che a volte le coincidenze sono buffe. Fanno davvero pensare che la storia, dopo essersi manifestata in forma tragica, abbia la tendenza a ripresentarsi nei panni della farsa. Ci avviciniamo al 4 novembre che, qui in Italia, è la giornata delle forze armate e festa dell'unità nazionale. Ricorrenza lugubre, apprezzata solo da generali e loro sottoposti. Apoteosi della guerra, nella sua sedicente rude necessità. A nessuno piace, nessuno la vuole — ci mancherebbe, ma figuriamoci! — ma... quando ci vuole, ci vuole. E bisogna essere riconoscenti verso chi la combatte e si sacrifica, i «nostri ragazzi».
Ma poiché il caso ha voluto che in quest'ultimo periodo ci rinfrescassimo la memoria sulla rivoluzione spagnola del 1936, non possiamo fare a meno di notare che il 4 novembre è anche un'altra ricorrenza, nel suo piccolo altrettanto lugubre. In quel contesto storico, segnò l'ingresso degli anarchici nel governo. Ora, proprio quest'anno, in Spagna il 19 luglio non sono scesi in strada i pochi nemici dello Stato a commemorare il 76° anniversario dell'inizio di quella rivoluzione. Sono scese in strada milioni di persone a protestare contro le loro condizioni di vita, sempre più deteriorate, e contro la politica del governo. Qualcuno, in vena di sensazionalismi, l'ha definita "rivoluzione spagnola".
19 luglio-4 novembre: la breve estate dell'anarchia. Sotto il caldo sole d'estate tutto appare possibile, anche l'impossibile. Si dà l'assalto alle caserme, si liberano i prigionieri, si espropriano i ricchi, si abbattono i fascisti, si incendiano le chiese, si mettono al rogo atti giudiziari e titoli di proprietà. Tutto è di tutti. Ci si ama e si dorme all'aperto, la mano sul fucile e gli occhi fissi sulle stelle — è la rivoluzione. Ma poi arriva l'inverno. Non sono tutte rose e fiori. Piove e schizza fango. E fa freddo, un freddo terribile. Bisogna distinguere fra ciò che è davvero possibile e scartare senza esitazioni l'impossibile. Non c'è nessuna rivoluzione in corso, c'è la guerra civile. Quindi, non c'è più nessuna utopia da realizzare, c'è una strategia da applicare. Chi lo dice? Ma lo dicono loro, i «militanti influenti» («destacados militantes»), quelli che sanno, quelli che nel corso degli anni si sono fatti un nome e una reputazione, quelli che hanno la voce sempre collegata al megafono (quando parlano loro, gli altri tacciono e ascoltano). Sono loro i "nostri" strateghi, ovvero i "nostri" generali, comandanti, condottieri (come indica l'etimo della parola). Prima arrivavano con idee in testa per sollecitare discussioni e dibattiti, ora arrivano con cartografie sotto il braccio per dare indicazioni.
La teoria, si sa, ha bisogno di esperienza pratica. E la prova dei fatti li ha convinti, questi «militanti influenti», che l'anarchismo necessita di revisioni. Può andare bene come tensione sovversiva nei momenti di calma... ma quando il gioco si fa duro, poche palle! L'anarchismo deve diventare circostanziale, situazionale, contingente. Va sapientemente dosato. Non si può essere sempre così maledettamente anarchici, si perderebbero troppe opportunità. Una conflittualità permanente allontana i favori, una alternata li attrae. Effettivamente i marxisti non hanno tutti i torti: un periodo di transizione ci vuole, incluse tutte le necessarie transazioni. Smettiamola di fare le zitelle acide, non facciamo troppo i choosy. Come disse una celebre ministra anarchica, la «causa comune contro un nemico comune ha reso possibile avere e mantenere l'unità di tutte le forze antifasciste: Repubblicani, Socialisti, Comunisti e Anarchici... Dobbiamo cercare l'intesa, il punto di contatto che ci permetta maggiore libertà...» (in fondo, il 4 novembre è anche festa dell'unità nazionale. C'è tempo per il 3 maggio con il suo bagno di sangue catalano...).
Se la rivoluzione si fa per distruggere lo Stato, ogni autorità ed approssimarsi all'anarchia, la guerra civile si fa in difesa della Repubblica. Per un voltafaccia simile, a questi anarchici basta poco, anche un paio di mesi, e si passa dalla critica radicale («L'esistenza di un Governo di Fronte Popolare, lungi dall'essere un elemento indispensabile nella lotta antifascista, è qualitativamente una volgare imitazione di questa stessa lotta») al consenso pragmatico («il governo, in quest'ora, come strumento regolatore degli organismi dello Stato, ha cessato di essere una forza oppressiva contro la classe lavoratrice, allo stesso modo che lo Stato non rappresenta più l'organismo che divide la società in classi... I nostri compagni porteranno al Governo la volontà collettiva e di maggioranza delle masse... Si tratta di una fatalità che si abbatte su chiunque. E la CNT accetta questa fatalità...»). Naturalmente «simili bruschi mutamenti sono caratteristica dei politici», ma insomma, cosa volete farci? L'urgenza delle cose non consente ponderate riflessioni, apprezza solo riflessi rapidi. Bisogna esserci per capirlo.
«Prima la guerra, poi la rivoluzione» era lo slogan dei vertici anarchici spagnoli. Anche qui nessuno la vuole fare, ma lo esigono le circostanze. E la guerra ha la sua scienza, la sua arte. Si chiama strategia che, in senso figurato, indica il campo, l'accampamento, l'esercito. Il campo di battaglia dove agisce il condottiero. Tutte concezioni nate con la comparsa della guerra. C'è chi comanda e chi obbedisce. Chi indica e chi segue le indicazioni. Gran bella retorica, fedele nei secoli a chi vuol far scattare sull'attenti. Da una premessa simile non si poteva che finire nel governo e nella militarizzazione.
Ma chi vuole trasformare il mondo e cambiare la vita non ha bisogno di delimitare nessun campo di battaglia: è tutto l'esistente che vogliamo sconvolgere. La sovversione sociale non è affare di partito, né tanto meno di uno Stato Maggiore. Si gioca dappertutto, molteplice, anonima, non programmabile, incontrollabile. E chi non vuole né comandare né obbedire, come gli anarchici, non ha bisogno di nessuno stratega. Prende indicazioni solo dalla propria intelligenza, dalla propria sensibilità, dal proprio intuito, dalla propria conoscenza, dalla propria esperienza. Il culto della personalità, che si esprima sotto forma di «uomo della Provvidenza» o di «militante influente», è nefasto. Anziché alimentare e generalizzare il senso di responsabilità individuale, porta alla creazione di pochi capi e di tanti servi. Come scriveva Vernon Richards, «A coloro i quali dicono che ciò condanna alla sterilità politica e alla Torre d'Avorio noi rispondiamo che il loro realismo e il loro "circostanzialismo" porta invariabilmente al disastro». Inutile poi affannarsi a spacciare l'abbandono deliberato dei principi antiautoritari come semplici errori di valutazione.
Si avvicina il 4 novembre... Che coincidenza, che farsa!
 
[29/10/12]